Il suono c’è, le canzoni insomma, la voce, quella non c’è mai stata. Si è polemizzato, criticato, esaltato e quant’altro quando mesi fa uscì la notizia che Jovanotti si sarebbe fatto produrre il suo nuovo disco da uno dei giganti americani della produzione, Rick Rubin. Sebbene il produttore sia salito alla fama mondiale soprattutto per aver prodotto i più bei dischi di Johnny Cash, riportandolo in auge nei suoi ultimi anni di vita dopo che era stato “fatto fuori” dall’industria discografica, Rick Rubin nasce come produttore hip-hop, il che per uno che come Jovanotti è nato da quel mondo poteva avere senso. Le battute si sono sprecate, i giudizi sommari pure, tipo non basta Rick Rubin per fare di Jovanotti un artista vero.
Di fatto il Jova ha tanti difetti (ad esempio cantare così e così e rappare peggio, come dimostra il singolo apripista Oh! Vita che intitola anche il disco, dove fa fatica anche ad andare a tempo e trovare un po’ di contenuto a quel che dice – “Alcatraz… Razzmataz” – per dire…), ma non è uno stupido e ha una buona cultura musicale. Poi c’ha anche i soldi e perché non togliersi lo sfizio di lavorare con uno dei suoi idoli?
C’è chi dice che Rubin per i soldi avrebbe prodotto anche la portinaia di casa sua, e anche questo probabilmente è vero. Ma l’operazione è onesta: insomma non è quello che fanno di soliti gli italiani, che si portano in America fonici e musicisti, per dire che hanno registrato in America e fanno lo stesso disco che avrebbero fatto in Emilia Romagna (per capirsi). Questo è un gran suono che gli italiani non hanno, ed è un piacere sentirlo. No, Jovanotti in America c’è andato con umiltà: “Rick Rubin mi ha messo di fronte ai miei limiti, vocali, di interpretazione. abbiamo costruito un disco scarno, crudo, senza trucchi, un disco che è solo se stesso, non è una reazione a nulla, un disco che è indiscutibile, perché è un pezzo della vita di un essere umano”.
Rubin è sempre stato uno che lavora di sottrazione; i dischi di Cash ad esempio erano fatti solo di voce e chitarra, ma vabbè, la voce di Johnny Cash dopo quella di Sinatra e quella di Elvis è stata la voce più straordinariamente bella del ‘900. Fare un disco hip-hop che però suoni quasi acustico è una bella sfida, ma alla fine questo è un disco da cantautore ed è la sorpresa. Non c’è per capirsi la solita accozzaglia di suoni elettronici che schiacciano e oscurano i pezzi dei rapper italiani, quel pasticcio che vuole suonare potente ma non lo è: è finto. Qua ci sono gli spazi, i silenzi, i ritmi dell’anima, il limitare la strumentazione al minimo: batteria, basso, chitarra acustica.
E a proposito di chitarre acustiche (suonate e registrate splendidamente), di brani minimali, di ballate il disco è pieno.
E’ un disco di Rick Rubin, non c’è niente da dire, suona benissimo e il suono rende accattivanti anche le pecche di Jovanotti che comunque ha fatto uno sforzo notevole anche in fase di scrittura.
Canzoni cantautoriali per la maggior parte, stile che sa un po’ di Niccolò Fabi e – udite udite – c’è anche blues, Quello che intendevi, per metà parlato, storie di migranti e di fughe di cervelli con un bell’Hammond in sottofondo. Viva la libertà è quasi country , con una ritmica a base probabilmente di pezzi di legno picchiati per terra, un coro botta e risposta, peccato la fatica che fa a cantare. Piace e molto il funk stile New Orleans con una poderosa sezione fiati di In Italia, e se Sbam! è un quasi reggae innocuo e scontato, Amoremio è un pezzo pianistico dal sapore jazz con un giro armonico per niente brutto. Affermativo suona come uno stornello mediterraneo, sempre chitarre acustiche in primo piano. Il disco finisce con l’orribile Fame che sembra uno scarto di J-Ax il che è tutto dire anche se nel finale c’è una ottima sezione fiati che ricorda lo Stevie Wonder degli anni 70 che riporta in alto un pezzo che cominciava malissimo.
Insomma, se qualcuno ha detto che da una rapa non si può tirare fuori niente, non è così: Jovanotti sarà una rapa, ma il disco suona benissimo (e qualche bella canzone c’è).