C’è un trucchetto che funziona molto bene tra gli autori di canzoni americani e irlandesi, soprattutto. A me lo rivelò personalmente durante una intervista Glen Hansard quando gli chiesi spiegazione di alcuni riferimenti biblici in un suo brano: “Che tu sia credente o no, la Bibbia è la più grande fonte di ispirazione per chiunque scriva canzoni” mi rispose. D’altro canto, chi ascolta ad esempio Bob Dylan attentamente si sarà imbattuto in citazioni bibliche un verso ogni tre (e non solo nei tre famosi dischi cosiddetti “della conversione”). Per quanto gli americani siano un popolo che si considera molto individualista, ribelle, iconoclasta, la Bibbia, almeno fino a un paio di generazioni fa, è sempre stata “il libro”, quello da cui è impossibile prescindere e che, credenti o no, ti segna per tutta la vita.
Quanto detto già spazza il campo da chi vuole etichettare a ogni costo un artista. Se guardiamo però al caso di Bruce Springsteen, troveremo che nelle sue canzoni, più che citazioni bibliche, c’è una ricerca quasi ossessiva del fattore religioso. Uno scavare profondo.
“Una volta cattolico, per sempre cattolico” disse una volta lui stesso, ripetendo il vecchio motto, riconoscendo che l’imprinting con cui era stato cresciuto, benché con risvolti anche burrascosi ad esempio l’esperienza negativa in una scuola di suore, non poteva essere negato, per quanto lui avesse preso le distanze dalla fede praticata. Nella sua recente autobiografia invece, quelle radici riemergono prepotentemente, basti pensare che il libro (e tutti gli spettacoli che sta tenendo da mesi a Broadway) si conclude con il Padre Nostro. Come a dire: da lì sono partito, lì sono tornato.
Non tragga in inganno allora il titolo del bel libro di Luca Miele (redattore del quotidiano Avvenire), “Il Vangelo secondo Bruce Springsteen” (Claudiana Torino, 84 pag. 9,50 euro), titolo che si adatta anche ad altri personaggi di una medesima collana, ad esempio “Il Vangelo secondo Stephen King”. Miele non attacca nessuna etichetta al musicista americano, semplicemente si mette alla ricerca di indizi, tracce, riferimenti: “Non è nostra intenzione incollare alcuna etichetta a Springsteen, né annoverarlo – o escluderlo – dalle fila dei credenti. Ma interrogarne l’ispirazione, sondarne l’universo poetico, consapevoli che un corpus musicale, per sua natura, non è compatto e unitario ma è aperto, frammentario, segue correnti alternate, è attraversato da personaggi che vivono, lottano, agiscono e reagiscono in maniera diversa, spesso opposta, contraddittoria. Che cercare, a tutti i costi, una coerenza in questo magma poetico significa rischiare di “tradire” l’intenzione del rocker americano” scrive nell’introduzione.
D’altro canto chi ha preso parte ad almeno a un concerto di Springsteen, sa benissimo che non esiste niente di più simile a una celebrazione liturgica di un suo show, per la capacità di elevare il pubblico verso un Oltre, per l’esperienzialità di comunione e di popolo che vi si vive. Allo stesso tempo, chi ha approfondito un po’ un disco come Nebraska, avrà capito perfettamente che ogni canzone è figlia diretta dei racconti della grande scrittrice cattolica Flannery O’Connor.
“Quando Springsteen urla di credere in una terra promessa ( The Promised Land), quando «invoca un salvatore per queste strade» ( Thunder Road),quando descrive l’immersione nelle acque come un battesimo ( Spare Parts), quando fa pregare i suoi personaggi ( Two Faces), quando prega in prima persona ( My City of Ruins), quando riscrive la storia di Gesù ( Jesus Was an Only Son), quando convoca gli spiriti dei morti ai piedi della collina del Calvario ( We Are Alive), quando cita Gesù che caccia i cambiavalute dal tempio ( Rocky Ground), quando intona il gospel di Heaven’s Wall, quando insomma utilizza simboli o immagini religiose, si appropria anche del loro “spessore” trascendente?” si domanda Miele.
Immergendosi in questa indagine, l’autore inevitabilmente tocca diversi temi non procedendo in modo cronologico, ma come un detective a cerca di indizi. Ad esempio l’amore, ben analizzato nel capitolo di Tunnel of Love, così come il senso della perdita e la rielaborazione del lutto che attraversano molte delle canzoni a partire da Magic, in concomitanza con la morte di amici pensati inperdibili come Clarence Clemons e tanti altri: “Fino a ora springsteen aveva cantato la comunità dei vivi, ora canta la comunità dei morti”. Il disco The Rising, poi, è tutto una preghiera, una richiesta a Dio di significato del dolore.
Un buio apparente che altrove si dischiude in autentica dichiarazione di fede, il che non significa, come molti superficialmente intendono, che la vita diventa improvvisamente facile e bella. Tutt’altro, ma bisogna averne fatto esperienza per capirlo: “In I’ll Work for Your Love il rocker americano canta di una donna che vive un suo calvario privato. Le costole della donna emergono dalla sua schiena «come le stazioni della via Crucis», la luce dise- gna «un’aureola» attorno alla sua testa, e «gocce di sangue cado- no a terra» («drops of blood», come nel Vangelo di Luca, 22,44). Fino alle parole: «sono qui cercando il mio pezzo di Croce». La sofferenza è ora iscritta in un orizzonte di fede“.
Bellissimo il capitolo dove viene analizzato il contenuto e sociale e politico del nostro, dalla disillusione e l’amarezza giovanile, fino al cambiamento dell’età matura, nella splendida descrizione dell’album Wrecking Ball: “C’è un filo rosso che unisce, pur nella diversità dei percorsi tracciati dai singoli brani, questa manciata di canzoni: è il we, il «noi», la comunità. Il we percorre come una scossa, come un appello, come una destinazione, l’intero Wrecking Ball. La tragedia, la distruzione delle certezze, la scomparsa del lavoro, è come trattenuta dalla rete costituita dal we, dal «noi». L’isolamento, il rischio dell’isolamento, il terrore dell’isolamento che aveva osses- sionato la scrittura di springsteen, che aveva gettato i suoi perso- naggi in mondo di solitudine e frustrazione – solo è l’uomo al volante di State Trooper, solo il fuggiasco di Stolen Car, inchiodato a un destino di solitudine e reclusione, manca l’incontro con il padre l’uomo di My Father’s House, è soffocato dall’alienazione l’uomo che si sente come se un «treno lo trascinasse in basso» (Downbound Train) – si scioglie, ora, nella condivisione, nell’abbraccio della comunità“.
Quello che alla fine esce da questo libro è il ritratto di un uomo profondamente impegnato con la vita in ogni suo aspetto, che non ne esclude uno a favore di altri, quello che invece è l’approccio ideologico alla realtà, cancellare quello che non si capisce o non ci piace. Springsteen è un uomo completo, ma per arrivare a questo punto ha dovuto percorrere il suo calvario umano. Non è da tutti.
“Sul treno cantato da Springsteen ci sono tutti: «buffoni e re», «santi e peccatori», «puttane e giocatori d’azzardo», «perdenti e vincitori». La salvezza non ammette tagli o esclusioni, fratture o pedaggi. La salvezza, cantata da Springsteen, è inclusiva, chiama tutti, interpella tutti, accoglie tutti. È una salvezza che conserva, intatto, il suo ancoramento alla terra. Come nel brano Kingdom of Days, il regno non espelle dalla storia, non sconfina dalla quotidianità, non rincorre distanze impercorribili. È il qui e ora, è la trama (umana) dei giorni” conclude l’autore. Un libro che non ha nulla da invidiare a quelli di stimati colleghi americani, anzi.