Come nei giorni nostri anche negli anni sessanta pare non fosse immediato ottenere un visto per entrare negli Stati Uniti. Nel 1966 Neil Young decise di farlo di nascosto. Insieme al futuro compagno dei Buffalo Springfield, Bruce Palmer, da prima compró un “anonimo” carro funebre Pontiac del ’53, poi con tre ragazze ed un tipo dello Yorkville Village, convinsero l’agente di immigrazione con la scusa di varcare il confine per andare a Vancouver facendo “una puntatina a Sud” sfruttando le più comode e veloci strade americane. Partendo così da Toronto oltrepassarono “la frontiera più anonima che c’era”.
A raccontare questo aneddoto è lo stesso Neil Young nel suo libro “Il Sogno di un Hippie: “Passammo il confine con sei barattoli di erba e qualche strumento. Mentre entravamo negli States, ridevamo al pensiero della terra promessa”.
Neil Young avrebbe poi davvero trovato di lì a poco la terra promessa della musica in California e da allora avrebbe varcato quel confine, più o meno regolarmente, centinaia di volte ancora… sempre con gli strumenti del mestiere al seguito e qualche volta con gli stupefacenti per favorire la creatività e il divertimento.
Canadese di nascita e americano di adozione, Neil Young non ha mai nascosto l’amore per questi due Paesi. Nel suo nuovo disco The Visitor, realizzato ancora una volta con il supporto dei Promise of the Real guidati da Luke Nelson, ha voluto esplicitare questo suo duplice legame: “Comunque sono canadese e amo gli Stati Uniti (il mio amico americano). Amo questo modo di vivere, la libertà di azione e la libertà di espressione”. E ancora: “Tu sei la terra promessa, tu sei la mano amica”. Inizia così Already Great, la canzone di apertura del nuovo disco. Il Visitor del titolo dell’album, così come l’uomo di spalle della copertina del disco intento a guardare un auto della polizia, è probabilmente lo stesso Young. E fin qui la parte romantica. Di seguito nella canzone parte l’invettiva all’America di Trump: “No wall, no ban, no fascist USA”. Already Great, Già Grande, vuole essere la risposta al motto di Trump “Make America Great Again”. Infine la dichiarazione del suo impegno civile e artistico: “Ho scelto di fare la mia parte secondo il progetto di Dio”.
Eppure, per quanto interessante e ricco di spunti, l’album The Visitor verrà verosimilmente presto dimenticato, come del resto un buon numero degli altri sedici album pubblicati negli anni duemila. In questo disco Neil Young paga tributo a diversi generi dal garage rock al blues, dal funk al folk, dal Latin rock al musical. Difatti il disco risulta essere disordinato sin dal primo ascolto e dimostra di non avere un vero e proprio collante. Nonostante The Visitor sia nel complesso un album piacevole, suona come un già sentito e ognuno dei dieci pezzi si sarebbe potuto collocare tranquillamente in dieci diversi suoi precedenti album.
Per esempio Almost Always troverebbe un’ottima collocazione in Harvest Moon. La stupenda e delicata Change of Heart, canzone migliore al pari di Almost Always, è una ballata folk come tante ne ha sapute comporre in passato.
Diggin’ a Hole è un blues in chiave noir intervallato da esclamazioni del tipo “woah” e “oh yeah” che si basa sulla ripetizione di poche frasi: “I’m diggin’ a hole/ MyGrandchildren/ I need a long rope/ I’m a worried man”. Senza una reale correlazione di musica e di testo, questa reiterazione di parole mi ha fatto venire in mente gli otto minuti folli e stucchevoli di T-Bone di Reactor “Got mashed potatoes”… Il successivo funk di When Bad Got Good ha davvero poco di musicale e ha il doppio merito di non superare i due minuti e di essere ancora più corto di Diggin’ a Hole!
L’unica piacevole novità di stile, che nel motivo ricorda vagamente la splendida Love and War di Le Noise, si ritrova negli otto minuti di Carnival, un rock latineggiante alla Supernatural di Carlos Santana, ma senza i virtuosismi del celebre chitarrista.
Poi ancora fiato alle trombe con l’orchestra e il coretto di Children of Destiny che, se non fosse per il tema trattato, potrebbe essere un prodotto di Living with War. Talvolta controverse, celebri sono le battaglie di Neil Young contro l’amministrazione Bush e contro le multinazionali della chimica. Il rispetto e la salvaguardia del pianeta sono altri temi da sempre cari a Neil. Infatti la conclusiva Forever, che sembra essere una outtake di Praire Wind, è una preghiera laica in cui Neil Young questa volta non invoca il Grande Spirito ma in cui è l’ambiente il tema dominante: “La Terra è come una chiesa senza un prete, la gente deve pregare per se stessa”.
The Visitor è l’ennesima dimostrazione che Neil Young da sempre segue il suo istinto che lo ha portato a comporre, negli anni, dei capolavori assoluti ma anche a commercializzare dei lavori a dir poco improbabili. In barba a tutto e tutti Neil Young è sempre stato coerente con i suoi ideali e i suoi sogni ed è andato dritto per dritto anche nelle scelte più bizzarre. Ha pubblicato degli album spesso mettendo in secondo piano la forma a beneficio dell’ispirazione artistica del momento portando avanti dei progetti talvolta sconclusionati ma creando nel complesso una quantità di capolavori tali da avere pochi eguali nel mondo del rock.
Ecco, in quasi 50 anni di attività solista, è anche nell’imperfezione e nella discontinuità della sua creazione che si può trovare il bello del suo talento: il suono non sempre pulito, la voce che non arriva limpida a tutte le note e la musica che non risulta sempre melodiosa. Eppure questa sua umanità, questa ruggine in tutte le canzoni, questa sincerità sono così drammaticamente vere da arrivare a commuove il nostro cuore. Abbiamo quindi bisogno di The Visitor e dei suoi Archivi come fonte costante di ascolto. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci ricordi che “Il mondo ha perso il dono delle lacrime”. Abbiamo bisogno di Neil Young che con la sua fragilità e la sua voce spezzata continua a commuoverci.