Andrea Chénier di Umberto Giordano è opera ancora apprezzata dal pubblico (ne ricordo nuovi allestimenti tra il 1998 ed il 2006 a  Bologna, Catania e Venezia oltre che nei teatri ‘di tradizione’ dell’Emilia Romagna) ma maltrattata dalla critica. Eppure in questo anno di grazia 2017 il Teatro dell’Opera di Roma e La Fenice hanno presentato  nuovi allestimenti. Un altro il 7 dicembre ha inaugurato La Scala (da dove mancava da 32 anni). Altri ancora si sono visti ed ascoltati di recente a Monaco di Baviera, all’Opéra di Parigi ed al Liceu di Barcellona. Quindi, regge ancora nonostante la difficoltà di trovare voci (specialmente quelle tenorili) imperniate sul centro (ma  in grado di ascendere e svettare anche in tempi molto rapidi sia di discendere delicatamente) e  la macchinosità di un libretto considerato polveroso



Chénier è, innanzitutto, un’opera di voci. Ciascun dei tre protagonisti (un tenore drammatico spinto, un soprano lirico puro ed un baritono) ha almeno due arie o romanze che possono portare all’applauso a scena aperta e otto personaggi in ruoli minori, ma che  hanno modo e maniera di farsi valere ed apprezzare. E’ anche opera di regia (per far rendere credibile il libretto) e di orchestra (di grandi dimensioni e tale da contenere  anticipazioni (incluso il “chiacchierar cantando”) che diventeranno fondamentali nel Novecento Storico.  



E’ un esempio di dramma storico (anzi “istorico” seguendo la dizione della versione originale del libretto) che prende le distanze dal melodramma e si situa verso quella che sarebbe stata la caratteristica dei “drammi in musica” della “giovane scuola”: una vicenda relativamente semplice (nel caso in questione una situazione imperniata su differenze di classe sociale) situata in contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco e, quindi, popolato di figure minori ma ciascuna con una propria marcata personalità.



Da un lato, appartiene al filone “grand opéra padano”, una concezione tutta italiana in cui, esauritasi l’epoca del melodramma verdiano, si tentò di fondere elementi del grand opéra  francese con elementi wagneriani. Secondo Fedele D’Amico, durò appena una dozzina d’ anni, e riguardò essenzialmente l’area tra Bologna e Milano; ora gran parte dei suoi autori (Franchetti, Rossi) non si rappresentano più. 

Andrea Chénier ritorna in grande spolvero e a richiesta di un pubblico che (come dicono le cronache cittadine di questi mesi) vuole law and order e detesta i giacobini. In Andrea Chéniersi tesse l’elogio dell’aristocrazia (pronta a morire pur se innocente) e si condannano senza appello i giacobini (il cui parvenu Gérard diventa un tagliateste pur con il cuore buono ed il pentimento facile). La scrittura musicale e vocale ci mette del suo: ingrandisce tanto i “buoni” (gli aristocratici ed il poeta girondino) quanto i “cattivi” (i giacobini). Quando l’opera ebbe la prima alla Scala il 28 marzo 1896 ci fu chi vi lesse una critica nei confronti della sinistra di Depretis (il sogno del ritorno della “destra storica”, nobile e risorgimentale).

Il nuovo allestimento scaligero  di Mario Martone – scene di Margherita Palli, costumi di Ursula Patzak, luci di Pasquale Mari e coreografia di Daniele Schiavone – è come quello di Marco Bellocchio visto alcuni mesi fa a Roma, è al tempo stesso sontuoso e tradizionale. Sfrutta in modo intelligente la potenzialità tecniche del palcoscenico della Scala ma, al pari di Bellocchio a Roma, non fa un grande sfoggio di fantasia ed innovazione. Parrucche, crinoline, grandi saloni e ghigliottine sono piaciuti al pubblico della prima della Scala.

Un punto forte dello spettacolo è  la direzione d’orchestra. Riccardo Chailly ha scavato nella raffinata orchestrazione, nei colori e nelle tinte di un dramma che va da eleganti Palazzi aristocratici, alla confusione della Parigi rivoluzionarie, al tribunale del popolo, al carcere come anteprima della ghigliottina. Ci sono temi conduttori che ripetuti a breve distanza ed in chiavi differenti hanno un ruolo centrale.  Il coro (diretto da Bruno Casoni) ha cantato e recitato molto bene. E’ uno dei protagonisti di questa produzione

Andrea Chénier è opera di grandi voci, specialmente per il tenore: una parte impervia in cui si sono cimentati Pertile, Caruso, Gigli, Corelli, Domingo, per non citare che i più noti. La difficoltà maggiore è nel passare dal declamato, dal recitativo e dal ‘chiacchierar cantando’ ad ariosi che portano a acuti in ‘do maggiore’ senza neanche un breve arresto dal ‘recitar cantando’. Yusif Eyvazov (nella vita marito della protagonista Anna Netrebko), è ben lontano da questi standard. E’ migliorato rispetto alla deludente Manon Lescaut che cantò a Roma alcuni anni fa, ha un buon registro di centro, volume da vendere, ma è privo di sfumature e di melodia. Maddalena è una florida Anna Netrebko con la voce del giusto spessore ma un po’ troppo matrona per essere del tutto credibile in scena. In effetti, il vero protagonista è Luca Salsi un Gérard pieno di sfumature vocali ed con una grande capacità attoriale. Impossibile commentare tutti gli altri. Nel buon cast emerge Judit Kutasi nel ruolo della madre che, dopo avere perso marito e figlio, manda il nipote adolescente a combattere per la Francia.

Calorosi applausi ma anche qualche dissenso.