Penultima serata di Sanremo, il cerchio si stringe, gli artisti giocano le loro ultime cartucce, si affilano i coltelli. Oddio, almeno teoricamente. Difficile rinvenire anche nel passato recente una pochezza di contenuti soprattutto musicali, come nella proposta festivaliera dell’anno 2017. A fronte di grandi nomi (cantautori, autori, interpreti) la cui creatività appare, in maniera più o meno marcata, inaridita, appare evidente una situazione di imbarazzante impasse a livello di ricambio generazionale tra le nuove e recenti leve. O almeno chi viene fatto passare come tale da quell’establishment televisivo “da talent” che da anni ha in mano il potere decisionale in merito. Come dire, al netto dell’irripetibilità di certi grandi espressioni artistiche del tempo che fu, la buona musica non manca neppure oggi ma – grazie a questi illuminati da quattro soldi – viene fatta passare accuratamente sotto silenzio o si crea nell’opinione pubblica la convinzione che buona musica non sia. E allora prendiamo coraggio e vediamo quello che passa il convento con i finalisti giovani. Giovani si fa per dire. Partenza con un Leonardo Lamacchia con una Ciò che resta che è già l’archetipo di quello che si riproporrà più volte nel corso della serata. Canzone dalle metriche annaspanti e dalla melodia convenzionale, un testo pseudopoetico, una voce che è un calante continuo. E allora ecco il Lele di Oramai. Almeno qui non si cala (o si cala meno), ma la canzonetta inaugura la trafila dei motivetti leggeri e gonfiati di retorica giovanilista, dell’amore romantico senza nerbo dove la vita è surrogata in sbiadite proiezioni. Con Maldestro e la sua Canzone per Federica viene tentata la carta d’autore, e rispetto al resto stupisce piacevolmente la definizione di una qualche linea melodica. Il tutto è banalizzato dallo stereotipo dell’universo hipster che gioca la carta del romantico incompreso, ma un principio di scrittura c’è. Look “nuovo alternativo” con barbazza lunga che interessa anche il Francesco Guasti di Universo che, a differenza del suo collega, affonda in un insignificante vena finto-riflessiva e fastidiosamente dolciastra.
Si passa allora al “clou” della serata magari sperando di poter ricavare qualcosa di più dalle prime grigie impressioni che le canzoni dei big (ora ridotti a 20) hanno lasciato e magari confidando in un colpo di coda di uno o più di loro che rivitalizzi un po’il tutto con lampi di classe interpretativa.
Con la trovata non proprio esilarante della “Faccia da Festival” della De Filippi (mascherina orale a forma di sorriso sempre identico e inespressivo), si parte con il ripescato Ron. Giustamente ripescato senz’altro, perché in questa serata L’ottava meraviglia rialza di netto le proprie quotazioni. Interpretazione di alto profilo e qualche sussulto musicale di autentica classe. Voce più scoscesa che in passato ma con un’unicità senza pari nel porgere le frasi, ritornello arioso. Manca forse lo spunto irripetibile, ma di gente che scrive come Cellamare oggi non ce n’è più e c’è da scommettere che ne sentiremo presto o tardi la mancanza.
Con la Chiara di Nessun posto è casa mia ecco un’altra proposta di discreta eleganza. La tenuta vocale della Galiazzo lascia più di una legittima perplessità ma il timbro non è male e – cosa rara in questo Sanremo – c’è una melodia ben disegnata che afferra un tema e lo sviluppa in maniera coerente con variazioni scorrevoli e l’arrangiamento “al minimo” ma raffinato di Pagani.
Il Samuel di Vedrai è la versione italiana di quello che a livello internazionale offrono da anni realtà dance di vaglia come i Scissor Sisters. Riff electro con tipiche implicazioni simil-moderniste comuni anche ai Subsonica. Dance, spruzzatine rock, sentore giovanilista che non infastidisce e soprattutto un arrangiamento penetrante e vivo. Un Bernabei senza i difetti di quest’ultimo.
Nell’Al Bano di Di rose e di spine un Carrisi eroico e pieno di dignità si scopre fragile e arrochito soprattutto (ma non solo) sui registri medio-bassi. La canzone rinnova il sodalizio ricorrente con un Maurizio Fabrizio sempre a suo agio tra romanza e pop melodico. Per l’autore di Almeno tu nell’universo un risultato che merita rispetto per quanto lontano dal vertice raggiunto insieme con E’ la mia vita. Sarà forse un caso che al cantore di Cellino S. Marco venga fatto seguire il sipario edificante nonno-nipote?
Si torna alle nuove leve con Vietato morire di Ermal Meta. Abile e ispirato in passato come autore per conto altrui (l’Annalisa del bell’album “Non So Ballare”), spiace constatare che come autore in proprio si riveli (per la seconda volta consecutiva) deludente snaturando in gran parte le sue capacità. Uso della voce da rivedere, retorica dei sentimenti sdrucita e zeppa di stereotipi.
Poco male, perché con il Michele Bravi de Il diario degli errori si va decisamente peggio. Lo vedi, lo ascolti e realizzi che Luis Miguel era roba di altri tempi. Lui almeno aveva sedici anni quando proponeva canzoni adolescenziali sbarazzine condite da testi svenevoli. Questo Bravi ne ha già quasi ventitré ma tematiche e litania sembrano roba da contorta transizione verso l’età dello sviluppo.
Break salutare con la fresca soavità di Marica Pellegrinelli radiosa lady Ramazzotti, prima della discussa favorita Fiorella Mannoia. La sua Che sia benedetta è tutta in un testo semplice e diretto tra buone aperture e immagini rassicuranti da guru salottiera. La canzone cavalca metriche e melodie cantautorali battutissime, l’escamotage è quello del brano confinato nella terra di nessuno tra canzone e declamazione. Il tutto per un’interpretazione all’insegna dell’eleganza asettica e compassata.
Con il Clementino di Ragazzi fuori siamo nel puro birignao di genere. Rap canterino (dove il canto è un optional), impegno e sentimenti in carta velina con ostentata genuinità. La cosa più bella restano le iniezioni corali condotte dalla bravissima Antonella Pepe.
Vitalità e simpatia con Lodovica Comello e la sua Il cielo non mi basta. La cantante rubata alla fiction Violetta è per certi versi la castigamatti della schiera di questi big un po’ intorpiditi.Melodia elementare ma piena di verve e di buon gusto grazie a un’interpretazione fresca e alla dolcezza naturale di una protagonista che regala un lampo di classe perlopiù sconosciuta alle divette di oggi.
Per converso il Gigi D’Alessio de La prima stella è il paradigma della prevedibilità. Monumento alla coerenza che ama specchiarsi. Frasi zuccherose, sentimenti a portata di festa rionale. Talmente prevedibile che verrebbe voglia di parlarne bene così per il gusto del diversivo. Ma la sfilza delle frasi calanti non aiuta.
Paola Turci con la sua Fatti bella per te è semplicemente una spanna sopra tutti. Con un ritmo tosto e un’interpretazione incalzante, la grande cantautrice romana si aggiudica con agio la palma di migliore canzone del festival. Pop-rock di grande classe con mirabile gusto nel miscelare le componenti e nel cercare l’appoggio del coro per una melodia aggiuntiva che fa decollare quella principale. Tra echi di Coldplay e di ultima Bailey Rae, resta ammirevole l’abilità di attirare nel suo paradigma inconfondibile gli indubbi ammiccamenti al mainstream internazionale.
Altro nome storico, altra canzone molto convenzionale con il Marco Masini di Spostato di un secondo. Non male non bene, ritornello ascoltabile, voglia di integrarsi a ciò che esige l’ultimo grido tra look e uso di sezioni rappate.
Poco dopo le 23 viene proclamato Lele vincitore tra i giovani, mentre il più meritevole (pur senza impressionare) Maldestro si aggiudica 2°posto e premio della critica Mia Martini. Si torna dunque alla gara dei big.
Diverte il Francesco Gabbani di Occidentali’s Karma stasera in versione orango da villaggio turistico. Ironia e nonsense con qualche forzatura per accattivarsi l’audience. Melodia frizzante, maniera un po’ grassa ma sincera, manca lo spunto che identifica un vero modo artistico. Da rivedere.
Altro giro altro nome storico con il Michele Zarrillo di Mani nelle mani. Canzone dignitosa che rinnova l’antico sodalizio con l’amico di sempre Giampiero Artegiani, un pop melodico semplice e schietto che afferra in parte quella vena melodica che sembra latitare in questo Festival.
Che dire allora della Bianca Atzei di Ora esisti solo tu? Bella interpretazione della dolce e grintosa cantante sardo-milanese che valorizza il più classico dei pop melodici sostenuti, perfettamente inscritto nel manierismo trendy di Silvestre. C’è un che di irresistibile in questo abile melange, c’è quel piccolo colpo da teatro televisivo delle lacrime incontrollabili che sembrano sincere.
Il resto scorre veloce senza dire molto, tipo il Sergio Sylvestre di Con te. Il corpulento cantante meticcio tutto stazza e simpatia, spalma (con molte incertezze) soulismi tra Roussos e Wess su melodia strasentita e tanto di gospel posticcio per un vago effetto suggestivo.
La Elodie di Tutta colpa mia esibisce una canzone di Emma, una voce da Emma, un lamentoso simile ad Emma. Amiche inseparabili, intenti artistici a braccetto, canzone perfettamente in linea con l’amore fatto tutto di pancia e facili slogan nello stile di Amici.
Fabrizio Moro da tempo alla ricerca di una sua identità, ci riprova con Portami via, canzone pianistica con pretese d’autore nella strofa, più ordinaria nel crescendo convenzionale del ritornello, un canto un po’ Zero un po’ Rino Gaetano.
Giusy Ferreri, storica Winehouse nostrana, si ripresenta con Fa talmente male. Pur con il lavoro di ripresa di una voce che risente di recenti trascorsi, l’interpretazione è interessante. C’è in lei una dolce sincerità che non mente ed è evidente il tentativo di mettersi in discussione con una discreta canzone e un bel temperamento.
Chiude una delle cose peggiori, se non la peggiore, Nel mezzo di un applauso di Alessio Bernabei, con il suo pseudo-romanticismo da anni verdi. Un danzereccio che riporta in auge la retorica dell’adolescenza, piatto che funziona tra le frange agguerrite dell’eterno giovanilismo.