La prima cosa che sarebbe da dire sul nuovo disco di Ryan Adams è che ormai parlare di data di uscita di un album non ha più nessun senso. Non si capisce ancora (o per lo meno non lo capisco io) quale sia il meccanismo che regola i leak che affiorano sulla rete ma sta di fatto che “Prisoner”, che sarebbe dovuto uscire nei negozi e nelle piattaforme digitali il 17 febbraio, di fatto giri sul mio stereo già da prima di Natale.
Difficile, francamente, che la cosa sia avvenuta senza la complicità dello stesso artista, che probabilmente, arrivato a questo punto della sua carriera, ritiene più importante far arrivare la sua musica il più lontano possibile, piuttosto che vendere qualche copia in più.
Se penso a quanto sudarono freddo gli U2 quando smarrirono a Nizza una copia cd contenente la versione definitiva di “How To Dismantle An Atomic Bomb”, che sarebbe uscito di lì a un paio di mesi, viene proprio da sorridere pensando a quanto il mondo sia ormai cambiato.
La seconda cosa è che Ryan Adams è uno di quelli che, ad inizio del nuovo secolo, ha ridefinito in pieno (o forse sarebbe meglio dire che le ha ribadite) le coordinate del rock moderno. È un autore che si è affacciato su un mercato musicale saturo di proposte e in crisi economica pesante, con dischi che pur proponendo una ricetta usata e abusata, mostravano una freschezza e un talento compositivo dirompente.
Sul palco poi, soprattutto con i Cardinals, non si è mai vergognato di mettere in piedi uno spettacolo energico e rigorosamente elettrico come ai vecchi tempi, a volte giocando coi cliché (gli occhiali da sole, le giacche jeans, i soli di chitarra appariscenti e rumorosi) ma sempre con l’attenzione al divertimento e alla forma canzone.
Il risultato è che oggi lo considerano tutti un artista “contemporaneo”, anche se le sue radici sono innegabilmente ben piantate nella tradizione (e non manca neppure un po’ di sana follia, vedi la toppa con il logo della band Black Metal degli Emperor, ben in vista nel retro copertina di uno dei suoi dischi più recenti).
La terza cosa, è che anche lui è arrivato ad incidere un album a partire da uno strappo affettivo. Il divorzio con la moglie Mandi Moore, avvenuto nel corso dello scorso anno, è stato, per sua stessa ammissione (anche se a leggere i testi lo avrebbero capito tutti comunque) l’avvenimento che ha messo in moto la sua nuova onda creativa.
La migliore arte si annida nel dolore e nella sofferenza, dicono, e certi grandi dischi stanno lì a dimostrarlo: senza scomodare “Blood on the Tracks” di Dylan (che rimane a tutt’oggi il miglior esempio del genere), anche i recenti lavori di Josh Ritter e Tallest Man on Earth guardano in quella direzione e hanno saputo riversare la sofferenza della perdita e del distacco per creare bellezza. È un paradosso ma ha a che fare con la sacralità della creazione, in qualche modo.
Negli ultimi anni Ryan Adams, a detta almeno di chi lo segue da sempre, si è un po’ seduto sugli allori. Chi scrive ha apprezzato tantissimo l’esperimento straniante di registrare l’intero “1989” di Taylor Swift. Ne era uscito un album altamente ispirato, fresco e in tutto e per tutto nello stile del musicista del North Carolina. Un disco in parte agrodolce, dove già potevano intravedersi inquietanti presagi di quel che poi sarebbe avvenuto con la moglie.
A dirla tutta, però, un disco come “Ryan Adams”, uscito nel 2014, era piacevole ma nulla più. Qualche brano più ispirato degli altri, ma nulla forse di veramente memorabile, con la forte sensazione che il meglio, dal punto di vista compositivo, fosse già stato scritto una decina di anni prima.
Qui siamo ad un livello superiore, ma non di molto. “Prisoner” è un lavoro che parte benissimo, con quella “Do You Still Love Me?” che ha funto anche da singolo apripista. Un bel pezzo anthemico e diretto, fatto apposta per aprire i concerti e che pur presentando tutti gli stilemi del nostro, non riesce a suonare già sentita. I brani successivi, dalla title track a “Haunted House” passando per la evocativa “Doomsday”, si muovono su toni più dimessi, con sonorità più acustiche e un ritmo meno accelerato. Il livello è decisamente alto e se si fosse continuato così forse ora parleremmo di capolavoro.
Invece, proseguendo con la scaletta si avverte un po’ di stanchezza e a tratti viene innestato il pilota automatico, con canzoni gradevoli ma quasi sempre prive di sussulto, che a tratti sembrano guardare dalle parti di “Tunnel of Love”, sia per quanto riguarda le atmosfere generali, che, in parte, per le singole soluzioni melodiche; neanche farlo apposta, è proprio il disco in cui Bruce Springsteen, almeno implicitamente, dichiarava la fine del suo primo matrimonio.
Ad ascoltare tutto leggendo con attenzione i testi, però, la prospettiva si arricchisce di ben altre suggestioni.
L’apertura di “Do You Still Love Me?” è eloquente. Organo in sottofondo e strofa scandita da massicci accordi di chitarra, distorta e a volume alto fino all’eccesso, quasi a voler evocare i peggiori cliché del rock. “Mi ami ancora, ragazza mia?” canta Adams nel ritornello: è un grido sofferto ma consapevole, pieno di dignità. C’è una certa qual lucida accettazione in questo inizio: l’amore non è eterno, anni di vita insieme hanno il potere misterioso di cambiare le carte in tavola, di scombinare tutto (“Ti sto pensando, ragazza, ti ho avuto tanto in mente. Perché non posso sentire il tuo amore? Il cuore deve essere cieco. Che cosa posso dire? Non ho voluto cambiare nulla ma nella mia testa è tutto così strano”).
Cambiano i sentimenti, cambia l’altro, cambia la percezione che noi abbiamo dell’altro.
E allora improvvisamente, amare diventa una prigione. Il disco s’intitola “Prisoner” e la title track, una canzone incalzante, dal feeling acustico, tipica di certe cose già provate da Adams soprattutto su “Demolition”, incarna pienamente la metafora attorno a cui ruota tutto il concept.
Amare qualcuno vuol dire in qualche modo rinunciare ad una libertà intesa come autodeterminazione. Ma allo stesso tempo, se l’amore non è corrisposto, ci troviamo intrappolati. A questo punto quindi, “se il nostro amore è sbagliato, io sono un criminale. Sono un prigioniero del tuo amore”.
È una situazione difficile, che va disincagliata, ma occorre pazienza. E il problema è che si è in due. Io aspetterò, ma tu mi aspetterai? “Potrei attendere mille anni, amore mio, aspettare per te. Potrei stare in un posto solo, amore mio, e non muovermi mai.” canta in “Doomsday”. Ma è una pazienza non corrisposta, evidentemente: “Mi amerai fino al giorno del giudizio?” Chiede al termine del ritornello. Non pare che la risposta sia stata positiva.
In “Haunted House” l’amore che finisce arriva a contaminare anche il luogo stesso dove questo amore è stato vissuto e si è sviluppato, trasformandolo in un luogo dove “nessuno si ferma per scrivere e nessuno chiama”; e finisce che ci si ritrova da soli: “i miei amici sono tutti spariti, si sono tutti perduti”.
C’è un senso di tragedia incombente che pare aleggiare per tutto il disco e che in “To Be Without You” si trasforma in qualcosa di molto simile a una resa: “È così dura stare senza di te. Ogni giorno trovo un altro piccolo filo d’argento, mentre aspetto di svegliarmi da qualche parte sopra il cuscino e allora vedo lo spazio vuoto accanto a me e mi ricordo. Mi sento vuoto, mi sento stanco, mi sento sciupato. Niente veramente importa più.”.
È una rottura che non vede possibilità di redenzione, che non ha nessuno spazio per essere riparata. È anche una rottura ancora fresca, che le undici canzoni di questo piccolo viaggio sono riuscite a raccontare, non certo ad esorcizzare fino in fondo.
È per questo che, per il momento, non si intravede una via d’uscita. Il disco si conclude con un brano che, forse profeticamente, s’intitola “We Disappear”: “Forse domani il sole splenderà ma la luna è piena e nella mia testa c’è solo la brutta pubblicità del film della mia vita. Ero da solo? Lo sono ancora? Nessuno entra più, nessuno lo farà mai. Ti meriti un futuro e sai che non cambierò mai. Scompariamo, svaniamo nel nulla.”
“Prisoner” non ha l’intensità quasi insostenibile di “Blood on the Tracks”, e neppure la potenza evocativa di “Late for the Sky”, il capolavoro di Jackson Browne che a tratti metteva a tema le sue difficoltà amorose.
Ciononostante, è un buon disco, ci ridona un Ryan Adams in forma e desideroso di raccontarsi e pazienza se non è uno dei suoi lavori migliori: come sempre in questi casi, la sincerità nell’espressione viene prima di tutto.
Adesso speriamo solo che si decida a suonare dalle nostre parti.