Questo inizio di nuovo millennio è stato spesso descritto come privo di generi e trend di riferimento, come se la pressoché infinita disponibilità di passato che abbiamo davanti, permetta ai vari artisti di saccheggiare influenze a caso come in un grande supermercato e imbastire poi la propria musica sull’onda di suggestioni miste, declinate in senso spontaneistico.
C’è del vero in questo giudizio e io stesso, per quel poco che mi è dato di capire, mi sono accodato spesso a questa linea interpretativa.
Forse però, qualche timido fenomeno di tendenza lo si incomincia ad intravedere. È il caso della commistione, attivissima in questi ultimi anni, tra Soul, RnB e musica elettronica.
A ben guardare la questione è piuttosto semplice: di gente con la bella voce ne continua a nascere, che siano neri o bianchi. E oggi, un ragazzo con la bella voce non è più obbligato a formare una band o a padroneggiare più strumenti, per comporre le proprie canzoni. Oggi le possibilità che la tecnologia informatica offre sono pressoché infinite.
Un computer, un buon programma di registrazione, un sequencer, un sintetizzatore, sono aggeggi non certo facili da usare (anzi, difficilissimi, se si vuole farlo bene) ma si può farlo da soli, si può imparare da soli e, forse anche per l’enorme quantità di solipsismo insito nella società contemporanea, stanno diventando il principale strumento espressivo di una quantità di nuovi musicisti che si stanno affacciando sulle scene.
Che il pop e il rock odierno stiano vivendo di una certa penuria di chitarre, non è certo una novità. Oggi sono questi aggeggi e tutti i loro derivati a dettare legge e, al di là di facili e francamente banali considerazioni sul fatto che “quelli che usano queste cose non suonano davvero”, non è assolutamente detto che sia un male.
Probabilmente è stato James Blake a dettare i tempi. Il suo esordio nel 2010 è stato un fulmine a ciel sereno e si è capito che la commistione tra suoni digitali e una voce tra le più calde ed espressive degli ultimi anni, avrebbero potuto fare miracoli. L’artista inglese si è poi confermato con due dischi di enorme valore e nel frattempo sono arrivati altri nomi ad affiancarlo: Frank Ocean, Chet Faker, Blood Orange, The Weeknd nell’universo maschile, FKA Twigs, Lorde (che col Soul non ha nulla a che fare ma si serve comunque di una formula simile), Solange in quello femminile.
Da ultimo, i recenti casi di Sampha e SOHN, che hanno esordito quest’anno come esecutori della propria musica, dopo aver lavorato per diverso tempo dietro le quinte, come autori di canzoni altrui (e non di gente qualunque: basti dire Kanye West o Drake, per rendere l’idea).
“Process” di Sampha e “Rennen” di SOHN stanno facendo parlare moltissimo in questa prima parte dell’anno. Se Frank Ocean e James Blake si sono presi la scena nella seconda parte del 2016, è innegabile che il 2017 sia iniziato sotto il segno di questi due enfant prodige: nero il primo, bianco il secondo, ma tutti e due discepoli di Michael Jackson, Chet Baker, D’Angelo, Marvin Gaye e tutti i nomi più importanti legati, con declinazioni diverse, ad un certo tipo di sound.
Oggi SOHN (vero nome Christopher Michael Taylor) arriva in Italia e lo fa con una data al Circolo Magnolia di Segrate, Milano, uno dei punti di riferimento per la musica dal vivo nel nostro paese.
“Rennen” è il suo secondo disco, il seguito di “Tremors”, uscito tre anni fa. Quello era già stato un lavoro osannato, che ne aveva rivelato il grande talento. Tante cose sono successe nel frattempo: tantissime collaborazioni e diversi cambi di sede, da Londra (sua città d’origine) a Berlino, fino ad approdare a Vienna (dove ha conosciuto la ragazza che è ora è diventata sua moglie e che gli ha dato un figlio) e fare poi rotta oltreoceano, a Los Angeles.
Una corsa personale e professionale frenetica, al punto che “Rennen” (che in tedesco indica l’affanno, il fiatone che viene dopo un grande sforzo fisico) è diventato il titolo del suo nuovo disco.
Un lavoro che denota sicuramente un affinamento della scrittura, che si è fatta più essenziale, anche negli arrangiamenti. Un album complessivamente meno elettronico del precedente (i frequenti rimandi ai Radiohead, ben presenti in certi brani di “Tremors”, sono ora del tutto scomparsi) e più immerso nella componente Blues e Soul. Per il resto, tante tastiere, glitch e beat, ma all’interno di un contesto più minimale, che privilegia la forma canzone, almeno nella maggior parte dei momenti.
La prima cosa che si nota arrivando sul posto è che, sebbene sia ancora presto, la maggior parte della gente è già arrivata. Stasera sono previsti due special guest in apertura e il primo, come da indicazioni sul sito ufficiale del locale, salirà sul palco alle 20.50.
Non ci abbiamo creduto neppure per un istante e invece, arrivata l’ora stabilita, ecco L I M fare il suo ingresso. Forse le cose potrebbero davvero cambiare, in quanto a orari.
Sofia Gallotti (questo il nome che si cela dietro al monicker) si era fatta conoscere lo scorso aprile quando il suo ep d’esordio era uscito per La Tempesta International, suscitando impressioni positive tra gli addetti ai lavori.
È proprio di questi giorni la notizia della sua collaborazione con Factory Flaws, neonata etichetta milanese che ha già sotto contratto una giovane artista come Giungla, che sta riscuotendo consensi molto positivi soprattutto al di fuori del nostro paese.
Il suo set è breve ma molto efficace: ci sono molte basi, alcune delle quali manipolate al momento con l’uso del sequencer, e in un paio di canzoni si accompagna con il basso. Il suo è un Synth Pop molto d’atmosfera, non sempre immediato e piuttosto elegante, con una voce soffusa e leggera, sempre molto dentro gli strumenti.
Vengono proposti gran parte dei brani del primo ep, più qualche assaggio delle cose che ascolteremo tra qualche mese. La direzione, a quanto sembra, è quella giusta. Niente di trascendentale ma le capacità sembrano esserci e potrebbe davvero uscire qualcosa di buono.
Il secondo artista a salire sul palco si chiama William Doyle, ma è conosciuto soprattutto con il nome di East India Youth, monicker con il quale ha realizzato due dischi di Indie Pop fantasioso e colorato, che hanno venduto molto bene e lo hanno indicato come uno dei musicisti del nuovo millennio che potrebbe scrivere una pagina di storia interessante nell’immediato futuro.
Se sarà così, al momento non è dato saperlo. Quel che è sicuro è che a questo giro l’artista di Bournemouth, Inghilterra, si presenta con il suo nome di battesimo, per eseguire composizioni diverse da quelle che propone di solito col suo progetto principale, tutte provenienti dal disco “The Dream Derealised”, uscito a novembre.
Rispetto alla proposta a cui siamo abituati, c’è molto più Folk, anche se la componente elettronica risulta sempre massiccia. Doyle suona sempre la chitarra ma si aiuta con la Loop Station nel sovrapporre i suoni e gioca molto anche col Vocoder, così che la forma canzone spesso si dissolve in divagazioni strumentali e in esperimenti sonori.
Anche per questo ci sono pochi brani, ma il risultato complessivo è interessante, seppur non immediatamente fruibile.
SOHN arriva dopo un cambio palco più lungo del solito, durante il quale un sottofondo Ambient piuttosto straniante ha allietato, per così dire le orecchie dei presenti.
Nel frattempo lo stage invernale del Magnolia si è riempito davvero tanto, così che è un vero e proprio boato quello che accoglie Taylor e i suoi tre compagni d’avventura, alle 22.35 spaccate.
Si inizia con “Tempest”, prima traccia del primo disco, che ci immerge immediatamente nelle atmosfere sonore che accompagneranno tutto lo show.
La band consiste in un batterista, una percussionista che si occupa anche delle seconde voci e saltuariamente di una tastiera, e di un tastierista a tempo pieno che lavora anche con gli effetti. I tre musicisti sono posizionati nella parte rialzata del palco, alle spalle dello stesso Christopher, che invece siede al centro con davanti una tastiera che funge anche da sintetizzatore e sequencer.
La resa sonora è nel complesso buona, anche se nei momenti in cui lo spettro è maggiormente pieno, i bassi risultano alti in modo inverosimile e questo, soprattutto durante le prime canzoni, crea delle saturazioni ai limiti del sopportabile.
Per il resto, tutto fila liscio. Il controllo vocale di Taylor è incredibile, l’ugola limpida e potente, canta con grandissima precisione e con una potenza e un’intensità superiore a quella delle versioni in studio. O meglio, è vedendolo dal vivo, potendosi concentrare maggiormente sulla sua performance, che si riesce a capire che razza di cantante sia. Forse a livello espressivo rende meno che dal punto di vista della mera esecuzione tecnica ma sono appunti, siamo lo stesso su livelli altissimi.
Il resto del gruppo lo supporta a dovere e ne esce un concerto molto coinvolgente, dove non ci sono basso e chitarre a creare il groove, ma dove batteria e percussioni, unite ai beat elettronici, fanno ugualmente un gran lavoro dal punto di vista ritmico.
Il repertorio è quello dei due dischi e viene eseguita una parte consistente di entrambi. Grande spazio ovviamente ai singoli, con “The Wheel”, “Artifice” (impossibile stare fermi, su questa), “Bloodflows” dal primo disco, e “Signal” (da cui è stato realizzato un video diretto da Milla Jovovich) e “Hard Liquor” da “Rennen”.
Momenti di grande lirismo quando il singer è da solo alla tastiera, come in “Paralysed” o in “Rennen”, che dal punto di vista puramente musicale sono forse gli episodi più alti di tutto il concerto.
Ma si rimane estasiati anche durante “Harbour”, che inizia come una ballata soffusa ma sfocia in un crescendo quasi Techno.
Allo stesso modo, la componente elettronica viene fuori in “Falling”, il pezzo del nuovo disco che fa da perfetto ponte col passato e in “Lessons”, un altro dei singoli del primo disco, quello dove l’influenza Radiohead è maggiormente preponderante.
Finale con le melodie malinconiche di “Tremors” e, immancabilmente, con il Soul sporcato di Blues di “Conrad”, meravigliosa nel suo incedere e anche perfetto momento di comunione tra l’artista e il suo pubblico.
Termina così una serata perfettamente riuscita, ed è stato davvero un grande piacere vedere così tanta gente muoversi durante la settimana per un nome che non figura tra quelli per cui normalmente ci si muove in Italia.
Le canzoni di SOHN non avranno la complessa malinconia di quelle di James Blake, e il suo ultimo disco è senza dubbio più accessibile e anche meno ricercato, rispetto a quell’imponente cattedrale che risponde al nome di “Process” di Sampha.
Ciononostante, abbiamo di fronte un grande artista che, siamo sicuri, farà ancora parlare molto di sé in futuro.