È un po’ che Dario Brunori è in giro, quello appena uscito è il suo quarto lavoro, che rappresenta a buon diritto per il quarantenne cantautore calabrese il disco della maturità. Il suo nome d’arte (con SAS aggiunto dopo il cognome) è un omaggio alla ditta di materiali edili del padre, dove anche lui lavorava prima di decidere di fare il cantautore a tempo pieno.



Alcuni veloci dati per inquadrare il lavoro:  il gruppo di collaboratori e musicisti è quello di sempre, riunito in una masseria nella provincia di Cosenza per quindici giorni di lavoro intenso. 

La produzione artistica è invece del milanese di nazionalità giapponese Taketo Gohara, che non molto tempo fa (fra gli altri suoi più di 150 lavori) aveva riempito di suoni incredibili le Canzoni della cupa di Vinicio Capossela. E che il suono è consistente e ben architettato si sente subito, dal minuto in crescendo di plettri, archi e rumori che apre il disco, introducendo il brano d’apertura e primo singolo La verità.

Un brano che annuncia il tono e offre uno dei temi portanti di tutto il lavoro, come l’autore ha dichiarato nelle varie interviste rilasciate (alcune sono anche su youtube, ed è interessante anche vederlo raccontare). Il tema è la paura, che le canzoni in qualche modo cercano di vincere, o almeno di esorcizzare. 

Paura intesa e descritta sotto varie sfaccettature: in questo caso “la verità è che ti fa paura/l’idea di scomparire/l’idea che tutto quello a cui ti aggrappi prima o poi dovrà finire”. La paura di un destino che non si conosce, che sempre nello stesso brano fa il paio con la paura di cambiare, di impegnarsi con la vita. 

Le canzoni rappresentano appunto un tentativo di antidoto, non sempre riuscito, se è vero che “io che pensavo che fosse tutta una passeggiata/e che bastasse cantare canzoni per dare al mondo una sistemata” (L’uomo nero). Eppure subito dopo si riafferma questa specie di piccolo potere taumaturgico che le canzoni hanno, se non per salvare una vita almeno per migliorare una giornata. 

Non a caso il titolo della traccia tre è programmatico: Canzone contro la paura. Ed eccolo il potere: “Ma non ti sembra un miracolo che in mezzo a questo dolore e in tutto questo rumore/a volte basta una canzone, anche una stupida canzone/a ricordarti chi sei”. Ecco quindi, nascosta dietro un verso, la vera esigenza: ritrovare chi si è. 

Diverse altre figurazioni della paura di questi tempi appaiono nelle canzoni seguenti, la paura di una guerra santa, la paura di un amore che non dura (nella simpatica beguine di Colpo di pistola), la paura (anche esagerata) di perdere la vita, magari per un attentato, su un bus a Milano… 

Musicalmente il disco è ricco, sono presenti diverse anime del cantautorato italiano, come è inevitabile che sia – ognuno ha i suoi maestri, a volte consapevoli a volte no -; qui per citare alcune delle fonti più presenti possiamo trovare senz’altro un certo incedere Degregoriano, ma anche il conterraneo Rino Gaetano, alcuni passaggi (soprattutto melodici) cari a Niccolò Fabi e un vero e proprio tributo al Battisti di Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi nella canzone Diego e io. 

Ma il tutto, frullato ed aggiustato di sale non stona affatto, perché la sintesi funziona e sforna canzoni tutte convincenti e ben strutturate. Per essere del tutto sinceri, alcune più convincenti, alcune un filo meno, ma la maturità di questo artista c’è, aiutata e confortata da un suono davvero bello, dagli arrangiamenti affidati perlopiù a strumenti acustici, ma “disturbati” da un po’ di elettronica che si sposa benissimo al contesto. 

Su tutte (oltre al già citato brano di apertura La verità) io metto la canzone conclusiva, La vita pensata, che ancora una volta mette l’accento sulla pigrizia, sulla fatica di prendere la vita di petto, ma che comprende anche il capire che “il rimpianto non serve quasi a niente” e la speranza di avere qualcuno che ti aspetta. Speranza che si ritrova, unita ad una buona dose di ironia in un’altra canzone, forse un gradino ancora più su:Il costume da torero. 

Sì, perché “non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere/che il mondo possa essere migliore di com’è/ non sarò neanche tanto stupido da credere/ che il mondo possa crescere se non parto da me”.  

Dunque tirando le somme, in tempi in cui è difficile trovare chi ancora racconta storie, qui di storie ce ne sono, riguardano la vita concreta e sono raccontate bene, oltre che ben ambientate dal punto di vista sonoro. Un artista che fa piacere ascoltare, un tantino malinconico talvolta, ma che sicuramente spicca dalla palude di melassa e slogan in cui versa tanta della musica italiana. E che mette la voglia di andarlo ad ascoltare dal vivo, nel tour che proprio in questi giorni parte per un giro di un paio di mesi un po’ in tutta Italia.