Siamo al Santeria di via Paladini, un bel locale di Milano, ambiente discreto con tanto di cortile da oasi di verde in mezzo ai palazzi del centro città. Un ottimo posto per aperitivi in compagnia e, ogni tanto, anche per ascoltare buona musica.
Paolo Benvegnù presenterà qui il suo nuovo disco, uscito il 3 marzo per la piccola ma attivissima etichetta Woodworm ed è questo il luogo in cui, poco prima dello showcase dove si esibirà con la sua band, ci incontriamo per la nostra intervista.
Arriva un po’ in ritardo perché gli si era rotta la chitarra ed ha dovuto per forza recarsi a ripararla in un noto negozio di strumenti musicali. Ciononostante, si presenta come sempre cordiale e rilassato, contento di raccontare della sua nuova creazione artistica.
Dal canto suo, “H3+”, ideale conclusione della trilogia iniziata con “Hermann” (2011) e proseguita con “Earth Hotel” (2014), è l’ennesimo centro per il cantautore milanese ormai trapiantato in Umbria. Musica che si muove tra i misteri dell’anima e le profondità dell’universo, senza aver paura di guardare in faccia i più grandi momenti della nostra tradizione. Lo conoscono in pochi e lo conosceranno probabilmente sempre in pochi. Ciononostante, Paolo Benvegnù continua a dispensare bellezza canzone dopo canzone e a mantenere un rapporto quanto mai sereno con la propria quotidianità e il proprio lavoro. Qui di seguito c’è a grandi linee quel che è venuto fuori dalla nostra chiacchierata, prima che, incalzato da Niccolò Vecchia di Radio Popolare, introducesse il disco al pubblico e desse un primo assaggio della resa live delle nuove canzoni.
Quando quest’estate ci siamo visti dopo il tuo concerto in solitaria al parco Tittoni, avevi suonato in anteprima “Goodbye Planet Earth” ma poi mi avevi confidato di non avere molto altro di pronto… Da dove l’hai tirato fuori questo disco?
È vero che non avevo nulla di tangibile però tutte le intuizioni che ci sono nel disco le avevo già, dovevano solo scaturire nella giusta forma. Quello che ho fatto è stato che a un certo punto, come sempre in questi frangenti, mi sono isolato dal mondo e sono usciti tutti questi pezzi uno dietro l’altro, addirittura in maniera sequenziale; è infatti un disco che io concepisco in maniera cinematografica: c’è l’incipit, ci sono tutte le cose che succedono nella storia e poi l’inevitabile finale. In realtà poi quello che è successo è che solo l’inizio e la fine sono rimasti uguali. Sugli altri ho fatto una sorta di montaggio alla David Lynch…
Roba lineare, quindi…
Sì infatti (ride, nda)! Già non si capiva niente con la sequenza normale, figurati dopo!
Fammi capire meglio: avevi i brani pronti e hai cambiato l’ordine o hai proprio scritto i pezzi in modo che si adattassero all’ordine che avevi cambiato? Ma soprattutto: di che cavolo parla sto disco? Sinceramente non è che ci abbia capito molto…
Avevo già una cronologia, in effetti… in pratica si racconta la storia di questo Victor Neuer che è un assassino, uccide persone su altri pianeti. Siamo in un ipotetico futuro dove c’è un impero intergalattico, uno scenario alla Asimov, tanto per capire… in pratica gli vengono dei rimorsi di coscienza, comincia a diventare prima mercante, poi esploratore. Fa diversi viaggi da una dimensione all’altra e nel corso di questi si perde anche lui, perché è da solo, ci sono questi spazi immensi ed è inevitabile perdersi. Ad un certo punto perciò, quando capisce che si è perso, gli viene in mente che sarebbe una bella idea sciogliersi nella materia e diventare un esploratore della più piccola particella che c’è nell’universo, ovvero questo ione triatomico di idrogeno: l’H31 che dà il titolo al disco. Per cui, riassumendo, direi che l’intuizione che c’è stata dietro questo disco, dietro questo film che non si potrà mai fare, è proprio questa: se un uomo si volesse sciogliere nella materia, mantenendo però il proprio ricordo, le proprie sensazioni, il proprio sentire; senza occhi ma con tutta la memoria. Che cosa sentirebbe, che cosa vedrebbe, che cosa avrebbe da dire? E perciò questi sono i taccuini, le memorie di Victor Neuer, esploratore che diventa una molecola di idrogeno.
Però tu in “No Drinks, No Food”, che è l’ultimo pezzo, dici che “Non siamo ma stati da soli e da soli non sappiamo dove andare”: mi pare sia un riconoscimento del fatto che, pur sciolti nell’universo, il desiderio di possedere un’individualità che si rapporti agli altri sia pressoché insopprimibile. O sbaglio?
Beh sì, quella è l’idea di quel pezzo però credo che la cosa più interessante di tutto il disco sia che costituisce il superamento del dilemma amletico “Essere o non essere”. Essere in maniera totale, per certi versi onnisciente, significa però non essere materialmente, essere il vuoto. Se invece ti sciogli nella materia, mantieni il tuo essere ma allo stesso tempo anche il tuo non essere, visto che non hai più un corpo che ti imprigiona. È in questo senso che dico che c’è un superamento del dilemma amletico. È una soluzione che mi sono dato io, ovviamente, e che trovo confortante. Sono piccole intuizioni, esplorazioni che probabilmente lasciano il tempo che trovano ma che per me almeno sono state utili. Lo capisco dal fatto che non appena abbiamo finito questo lavoro, mi sono sentito più sereno.
Hai più volte dichiarato che “H3+” costituisce il terzo capitolo di una trilogia. Io la vedo così: con “Hermann” hai sostanzialmente messo a tema l’uomo, con le sue aspirazioni ma soprattutto con le sue crudezze, le sue cattiverie. Era un disco, in questo senso, molto attaccato alla terra. Poi c’è stato “Earth Hotel” e qui il tema era stato soprattutto l’amore, inteso come relazione tra due individui. Con quest’ultimo lavoro mi sembra, anche per quello che mi hai detto adesso, che tu abbia voluto trascendere. Dalla terra, il punto di osservazione si è spostato all’universo… Credo però che ci sia un legame in tutto questo, o sbaglio?
Sì, direi che è così. Il legame sta nel fatto che io cerco sempre di comprendere chi sono. Allora posso dire che se le nostre cellule riescono a riprodursi, a trasmettere informazioni alle cellule successive quando l’humus è possibile, allo stesso tempo cercano un altro posto, un’immortalità volante, per così dire; cioè, se il nostro scopo è quello di riprodurci, allora ho cercato di ricreare attraverso l’immaginazione un senso al reale a questi atto. Perché io il reale non lo vedo così. Nel reale io non vedo l’utilità di riprodurmi. Perché dovrei davvero riprodurmi in questo posto? Allora il senso sta nel tentativo di dare uno sguardo ulteriore: questi tre dischi si legano per questo motivo, perché si tratta di capire per quale motivo sono qui. Poi, ripeto, spero che per gli altri ascoltare questi dischi dia lo stesso conforto che ha dato a me il farli.
Si può dunque dire che sei riuscito a trovare una risposta alla domanda sul che cosa ti tiene qui adesso? Perché tu prima parlavi di scioglierti nell’universo però mi viene da dire che noi siamo qui adesso: dovremo pur trovare uno scopo del vivere, ora, così nella forma in cui siamo…
È vero, in effetti prima dell’anno scorso non avrei mai pensato di affrontare l’esplorazione degli spazi. Noi siamo qui e ora e non è che le cose vadano benissimo. Sicuramente per me non andavano bene qualche tempo fa e probabilmente non vanno bene neanche adesso, non lo so, dipende anche dai punti di vista da cui le guardiamo, perché le cose sono costantemente in divenire. Io ho sempre pensato agli spazi estremi come ad una fuga, all’enorme e anche al piccolissimo come a delle fughe. Invece no, è esattamente il contrario: al di là dell’affermazione famosa e anche un po’ retorica, per cui noi siamo fatti della stessa materia dell’universo, davvero, se ci pensi, l’infinitamente grande (come ad esempio l’esplorazione degli spazi che stanno facendo adesso i nostri astrofisici) e l’infinitamente piccolo (l’esplorazione del nostro cervello portata avanti dai neuroscienziati), stanno portando a dei risultati incredibili. Mi viene quindi da chiedere: in che senso noi siamo speculari al multiverso che abitiamo? Probabilmente, penso, tutto è assolutamente interdisciplinare. Perciò mi sono detto: voglio fare questa esplorazione in maniera salgariana, un’esplorazione verso l’infinito, perché se riesco a trovare delle risposte lì, non è detto che poi non mi possano servire qui. D’altronde lo dice la fisica quantistica ed è evidente anche per la biologia, quando si parla di scambi tra cellule: noi siamo qui unicamente per trasmettere. Non c’è altro. O almeno, per me che sono ateo, non c’è altro. Ma è comunque motivo di grande conforto: non è vero che non c’è niente. C’è la trasmissione per l’evoluzione della specie, per fare in modo che gli uomini diventino altro. Magari che diventino anche dei sassi. Dei sassi intelligentissimi. Perché no?
Parlando dell’aspetto musicale del disco. Ti confesso che i primi due ascolti sono stati davvero ostici…
Ti capisco, è un disco che non parte mai.
Talmente ostici che, ti assicuro, mi veniva davvero da pensare che a questo giro non ce l’avessi fatta… poi però, andando avanti, qualcosa ha iniziato a succedere, le canzoni hanno iniziato ad entrarmi dentro e adesso posso dire che si tratta di un disco splendido. Probabilmente non all’altezza di “Hermann”, perché quello rimane inarrivabile, io credo che anche tra dieci e passa anni ne parleremo come il capitolo più importante della tua carriera. Però lo trovo di sicuro superiore ad “Earth Hotel”: anche quello era un bel disco ma c’era una pesantezza, una staticità che rendeva il tutto poco scorrevole. Questo invece è più solare, più pop quasi (passami il termine). Anzi, addirittura ci sono due o tre pezzi che ricordano molto le atmosfere di “Piccoli fragilissimi film”…
Sì, “Hermann” è un disco pieno di scintillii, un disco dove l’intuizione è più viva. In questo invece l’intuizione è più meditabonda. Però sono d’accordo sul fatto che sia un passo avanti rispetto al precedente. Si tratta di canzoni, canzoni semplici. E sì, sono totalmente d’accordo con questa tua lettura ma devo dire che ancora una volta non è merito mio. Io ero partito come al solito, in piena scrittura “epica”, ma poi i miei compagni mi hanno fatto capire, sempre in maniera molto discreta, come sanno fare loro, che non è detto che le canzoni semplici debbano essere per forza canzoncine. È vero, ci sta, può essere così, ce ne sono anche un paio su questo disco e mi piacciono, mi è piaciuto scriverle e mi piace cantarle. Però è la parte del mio lavoro che vorrei nascondere di più, perché si tratta della parte meno complicata. Mi hanno fatto però capire che non è la complicazione in sé, quello che uno deve cercare, ma che è nella semplicità in sé che si può trovare la soluzione. E questo è ovvio, se ci pensi, però io devo sempre arrivarci attraverso una complessità di base.
All’inizio delle registrazioni, in realtà, volevamo partire in maniera molto complessa, soprattutto per quanto riguarda i testi, per arrivare a scioglierci a poco a poco, col prosieguo della storia, utilizzando sonorità sempre più acustiche. Poi però è successo diversamente. Abbiamo registrato tutto dal vivo, in presa diretta e forse questo ha aiutato ad alleggerire tutto, in maniera complessiva.
È una cosa che non avete mai fatto, vero?
Sì, ma è un metodo molto bello perché accade tutto nel momento. Tu sei lì e registri semplicemente quel che accade. Solamente i fiati e gli archi sono stati aggiunti dopo.
Tra l’altro, credo che a livello di arrangiamenti e di singole parti strumentali, questo sia il tuo disco migliore. È suonato veramente bene…
Certo, ma è perché ci hanno pensato gli altri! È stato un lavoro complementare e la cosa straordinaria è che tantissime cose sono venute fuori in studio. Ti dirò di più: abbiamo iniziato a registrare convinti che non saremmo riusciti a portare a casa neppure metà del materiale e invece al quarto giorno avevamo finito! Tante volte sottovalutiamo la forza di un gruppo di persone quando si mette insieme per un obiettivo. Nel nostro caso l’obiettivo non era neanche il disco; era quello di ritrovarci dopo un po’ di tempo, visto che non avevamo avuto quasi mai occasione per vederci, in questo ultimo periodo.
E poi è stato bravissimo Michele Pazzaglia, che si è occupato del missaggio e che è riuscito a sfrondare tutti quegli arrangiamenti complessi e incasinati che sempre cerco di mettere dentro.
Del resto, è dai tempi di “Hermann” che dici quanto la tua band sia importante. Spesso parli di te al plurale, anche:“I Paolo Benvegnù”…
Sì è vero, siamo un collettivo in tutto e per tutto, è così. Però è importante dire che a questo giro ho anche imparato l’importanza di demandare le cose. Per dire, normalmente io faccio sempre il missaggio in prima persona invece questa volta ne sono rimasto completamente estraneo. Ti giuro che non so assolutamente nulla di come sia stato missato! Ha fatto tutto Michele ed è stato bello scoprire che tutto è andato come doveva andare grazie alla bravura di una persona, che non ero io. Mentre di solito in sala prove è più semplice tra musicisti avere un rapporto di fiducia reciproca, con Michele, pur nell’ottimo rapporto che c’è tra di noi, la tentazione era sempre stata quella di subentrare, perché pensavo di poter essere un ottimo direttore d’orchestra. Questa volta quindi sono stato felicissimo di essermi sbagliato.
Poi lui è una persona molto diretta quindi è stato positivo che ad un certo punto mi abbia detto: “No, il missaggio non lo fai tu perché tu hai altre cose da fare. Ci penso io.”. Questo mi ha dato una grande serenità, è stato un grande passo in avanti.
Sempre a proposito di musicisti coinvolti: ho scoperto stamattina, leggendo le note stampa, che su “Slow Parsec Slow” il sassofono lo suona Steven Brown dei Tuxedo Moon…
Certo! Steven Brown è il più grande di tutti!
Mi racconti com’è nata questa collaborazione?
È stata un’altra idea di Michele: su quel pezzo avevo fatto una specie di solo con le tastiere che era venuto bene, mi piaceva; poi Marco aveva registrato una cosa bellissima col Continuum e quindi avevamo già due cose che ci piacevano molto, per questo finale. Poi si sono aggiunti i ragazzi che hanno suonato i fiati su “Se questo sono io” e anche loro hanno fatto un gran lavoro. Di conseguenza, per quello stesso pezzo avevamo ben tre opzioni ugualmente valide. Però Michele ad un certo punto mi ha detto: “Senti, queste cose sono fantastiche, ma non sarebbe meglio se chiedessimo un contributo a Steven Brown? Che ne dici (ride NDA)?”
Ma lui lo conosceva?
Lo conosceva, ma in realtà una volta lo avevo incontrato anch’io: nel 2005 a Firenze Giuseppe Magnelli organizzò una sorta di concerto tributo ai Tuxedo Moon, dove parteciparono diversi ospiti. C’era Gazzè, c’era lo stesso Magnelli, c’era Ginevra Di Marco, c’ero io… tutto quel giro lì di musicisti, insomma. Anche i Tuxedo Moon erano in città quella sera. Durante il soundcheck li abbiamo visti che ci guardavano suonare i loro pezzi e il risultato deve esser loro piaciuto perché ci hanno detto che avrebbero fatto il concerto con noi. Per cui io ho fatto tutta la sera sul palco di fianco a Steven Brown. Loro non conoscevano i nostri arrangiamenti ma hanno fatto lo stesso delle cose incredibili.
Così Michele ha avuto questa idea di contattarlo e ha dimostrato di aver ragione: Steven adesso si trova in Messico, se non sbaglio, per cui Michele gli ha mandato il pezzo, gli ha spiegato chi ero, gli ha ricordato che avevamo suonato assieme in quell’occasione e lui è stato gentilissimo, in tre ore nemmeno gli ha rimandato indietro questo capolavoro assoluto, un minuto e mezzo che sembra non avere nulla a che fare con me, davvero!
Parlando delle cose che hai fatto recentemente: hai appena lavorato al disco nuovo di Fabio Cinti, cosa per te non inusuale visto che produci molto, normalmente. Questa volta però hai scelto di fare anche il tour, assieme a lui…
L’idea era quella di stare un po’ insieme visto che era da un po’ che non ci vedevamo. Così ci siamo frequentati per circa un anno, tra disco e concerti, e in qualche modo questo ha influito su “H3+” perché nonostante il suo nome non sia presente ufficialmente tra i credits, nonostante non abbia preso direttamente parte alla lavorazione, comunque molte delle riflessioni che abbiamo fatto sono poi in qualche modo finite qui dentro. È un disco anche suo, in un certo senso: è una persona speciale, Fabio. È un filosofo, un grande musicista, uno scrittore meraviglioso, un uomo curioso, un matematico… tutte queste cose insieme. E musicalmente è uno dei più grandi talenti che abbiamo in Italia, davvero. Perciò mi ha segnato molto. Non nel modo di scrivere i pezzi (perché magari scrivessi come lui!) ma diciamo che ci siamo scambiati idee su delle intuizioni e siccome lui ne ha molte più di me, gli sono davvero grato!
Poi, ripeto, l’andare a suonare in giro è accaduto proprio perché avevamo tanta voglia di stare insieme, di divertirci. Suonare con Fabio e coi ragazzi della sua band, condividere la loro quotidianità, rimanere nel loro humus, mi ha fatto stare davvero molto sereno; i pezzi sono molto belli, poi incredibilmente me li ricordavo (ride NDA)!
Mi sembra che il tuo essere artista sia dato semplicemente dal fatto di seguire una visione personale. Scrivi le tue canzoni perché hai qualcosa da comunicare, sei preoccupato di quello che la tua musica può dare a te come uomo, ti interessa comunicare quello a cui tieni, senza avere l’urgenza, l’ansia magari, di cambiare la mente delle persone come altri tuoi colleghi hanno. Questo non essere per nulla vittima di condizionamenti esterni è a mio parere ciò che costituisce la tua cifra stilistica è anche quello che poi permette ai tuoi dischi di essere ogni volta così belli e così veri…
Certo, anche perché se no che cosa vuoi fare? Penso che sia questo l’obiettivo! L’unica cosa che posso fare nella mia vita, della mia vita, è quello di essere una sorta di “avvisatore”, un custode delle cose che in qualche modo ho capito, ho intuito. E l’essere custode non comporta il soverchiare il sentire dell’altro, è uno scambio. Vedi una donna bellissima ma magari non rimani per forza colpito dal sedere che ha bensì, magari, dal fatto che il suo braccio fa una rotazione di 47 gradi verso sinistra. È questo quello che mi colpisce. E penso che fare musica sia, di fatto, la stessa cosa. Ovviamente poi mi fa piacere se ogni tanto mi arriva una restituzione, da questa piccola ricerca che svolgo giorno per giorno; però non sono ossessionato da quello, anzi. Faccio questo mestiere perché mi fa vivere meglio e poi perché in questo modo riesco a vedere le cose in maniera diversa da come me l’hanno insegnato. E magari, perché no, potrò riuscire a tramandare ad altri questo mio modo di vedere, a dire: “vedi? Questo è un abat jour ma è anche un portale astronomico, la tua mano è uno strumento che serve per prendere gli utensili ma è essa stessa un utensile, è essa stessa un portale.”. Capisci cosa voglio dire? È il cercare di trovare lo sconosciuto in me e dire: “Guardate che ce l’avete anche voi!”. E non è neanche un’ambizione, questa. È semplicemente quello che dovrebbe fare chiunque faccia un mestiere creativo…
Quindi vuol dire, perdonami se traggo delle conclusioni da quello che hai detto, che nel momento in cui ti renderai conto che avrai finito le cose da dire, smetterai di fare dischi?
In realtà pensavo di averle finite già molto tempo fa. Adesso invece, paradossalmente, ho come l’impressione di avere aperto una nuova pagina. Forse mai come in questo momento vedo altro, rispetto a ciò che ho sempre visto. E non vedo l’ora di non vedere più, in modo tale da poter usare il ricordo come qualche cosa di diverso, di vedere meno, di diventare veramente miope. Vedi, io uso questi occhiali (se li toglie e me li mostra NDA) soprattutto quando guido, ma adesso che li ho tolti vedo molto poco e quindi sono costretto ad utilizzare l’interpretazione, cosa che preferisco di gran lunga. Uso quel pizzico di creatività che ho: quella non è una pianta ma potrebbe essere un quadro; quella non è un’automobile ma potrebbe essere un vaso. E visto che questo mi sta succedendo anche all’udito, ne vedremo davvero delle belle…
Veramente? Mi stai dicendo che sei già messo così male (risate NDA)?
Certo! Cosa credi? Ormai sono conciato come Pete Townshed (risate NDA)
Ultima domanda: sta per iniziare un nuovo tour, dove porterai in giro un nuovo spettacolo. Cosa dovremo aspettarci?
Guarda, come sempre io cercherò di diventare una donna bellissima quando canto, è sempre quella la mia aspirazione. L’idea è quella di trasformare queste piccole suggestioni in un qualcosa di corporalmente concreto. È l’idea di trasformare l’immaginario in materiale. Come quando vai a vedere un concerto ed è tutto perfetto anche solo per dieci minuti: non sono note, non sono canzoni, è tutto un grumo di materia, quasi. Quando ti succede è bellissimo ed è quello che cerchiamo di fare: cerchiamo di diventare noi stessi materia, quel piccolissimo continuo di spazio e tempo. Ecco perché man mano che vado avanti mi piacciono sempre più le cose astratte e sommerse. Perché delle cose conclamate sono pieni i libri, sono pieni gli occhi. Come diceva Bergonzoni: “Non è il successo, è il far succedere.”. Ecco, noi abbiamo l’ambizione di far succedere delle cose, se poi questo scatena qualcos’altro all’esterno, va benissimo.
Quando portavi in giro “Hermann”, nel corso dei primi spettacoli l’avevi suonato tutto. È un esperimento che non hai ripetuto con “Earth Hotel” ma che, francamente, vedrei benissimo per questo disco…
Sì, questa volta lo suoneremo di sicuro tutto. L’idea è quella di fare qualche piccola escursione nei due dischi precedenti e di andare a prendere le cose più sommerse di “Le labbra”. Per esempio, “Sintesi di un modello matematico” è un pezzo che mi piacerebbe tantissimo riprendere. Poi ovviamente ci saranno posti dove funzionerà meglio e altri dove funzionerà meno. Ma ci piacerebbe fare uno show strutturato in due parti: il disco nuovo, una pausa breve e poi una selezione di brani vecchi. Però il tutto fatto in modo che funzioni come un tutt’uno, come un qualcosa di fluido. Sai, arrivati a questo punto della nostra carriera, avendo accumulato un po’ di esperienza, penso che dovremmo fare come i musicisti classici: non è che devi imbonire nessuno, devi semplicemente fare quello che ti viene, reinventandoti giorno per giorno. Vediamo cosa succederà, comunque, anche perché dobbiamo ancora provare in maniera specifica. Di sicuro faremo in modo che io parli il meno possibile, anche se tra la tragedia delle mie canzoni e la scemenza di quello che dico, c’è sempre una certa connivenza (ride, nda)!