Non ricordo chi è stato a dirlo ma all’indomani dell’8 novembre, quando gli Stati Uniti d’America si risvegliarono con Donald Trump come nuovo Presidente, qualcuno scrisse che “Se non altro adesso dovremo aspettarci un sacco di bei dischi rock!”. 

Detto fatto. I Depeche Mode pubblicano “Spirit”, il loro album numero 14, e puntualmente veniamo a sapere che i temi trattati nelle dodici canzoni che lo compongono (che saranno diciassette nell’edizione deluxe) hanno molto a che vedere con quel che è successo quest’autunno dall’altra parte dell’oceano. 



E un po’ ci si stupisce, in effetti. Perché il terzetto di Basildon non è mai stato celebre per i suoi testi “politici” e anzi, Martin Gore, il principale compositore e paroliere, ha sempre preferito esplorare i complicati meandri delle relazioni amorose e andare a fondo del proprio rapporto con lo spirituale. 



Questa volta è diverso. Il gruppo ha dichiarato che quel che è avvenuto nell’ultimo anno, dalla Brexit alla crescita del razzismo e della xenofobia in molti paesi europei, all’acuirsi delle tensioni razziali negli Stati Uniti, lo hanno preoccupato a tal punto da voler scrivere un disco che provasse ad interrogarsi su dove stiamo andando e se possa esserci una via d’uscita. 

Trump c’entra poco, dunque. O se non altro non c’entra direttamente. Quando il gruppo ha annunciato l’uscita del disco e le date del relativo tour, era l’11 ottobre, la campagna elettorale stava raggiungendo la sua fase più calda e le canzoni di “Spirit” erano già state con tutta probabilità ultimate. Non c’è ragione di credere che il nuovo parto dei britannici costituisca una reazione al nuovo Commander in Chief della potenza americana.



Rimane però il fatto che una delle band meno “di protesta” dell’intero mondo del rock, si sia messa a scrivere un disco che, a leggere i testi, avrebbero potuto fare i “R.E.M” o i The National. E allora che cosa è successo veramente? 

Cosa abbia spinto Martin Gore, Dave Gahan e Andy Fletcher a virare pesantemente su questi temi, non lo so e non ho intenzione di formulare ipotesi. Rimane che, se posso permettermi di esprimere un giudizio all’interno di un pezzo che parla di un gruppo rock, certe paure, certi toni 

Drammatici, mi appaiono giusto un filino esagerati. 

Sentire Jeff Tweedy dei Wilco parlare al pubblico dell’Alcatraz, proprio all’indomani dell’elezione di Trump, come se si trattasse di un musicista in esilio, impossibilitato a tornare nel proprio paese, mi ha lasciato un po’ interdetto. Il problema, per quel che mi riguarda, è che qui è in atto una svolta antropologica, prima ancora che politica. È il cambiamento del rapporto tra l’individuo e la realtà, a dover essere messo a tema. Il razzismo, il populismo, la fame di leader decisi e “di destra” non sono certo una bella cosa (ci mancherebbe!) ma sono solo un aspetto (e non il più importante) all’interno di una situazione che è ben più grave e ben più generalizzata di quel che sembra. 

I Depeche Mode, almeno a livello istintivo, se ne sono accorti. “Spirit” è un titolo aperto, liberatorio (quando lo hanno annunciato per la prima volta mi immaginavo sonorità quasi eteree, temevo che virassero verso la New Age) ma già dopo aver ascoltato “Where’s The Revolution”, il singolo di lancio, ci siamo resi conto che sarebbe stato molto ma molto diverso da così. 

“Inizialmente volevamo chiamarlo ‘Maelstrom’- ha detto Gore nel corso delle numerose interviste rilasciate – ma poi ci siamo resi conto che suonava troppo Heavy Metal e abbiamo optato per ‘Spirit’”. 

Ma forse il primo titolo sarebbe stato più adatto: non c’è luce, non c’è respiro, in queste canzoni. C’è solo la disturbante certezza che qualcosa sta andando storto, che qualcosa di molto brutto si aggira là fuori e che verrà presto a prenderci, distruggendo tutto quello che abbiamo pazientemente costruito. 

Quattro anni dopo “Delta Machine” ,i Depeche scelgono di cambiare le carte in tavola: alla console non c’è più Ben Hillier, che si era occupato degli ultimi tre dischi ma è stato arruolato James Ford dei Simian Mobile Disco, musicista e produttore tra i più quotati del momento, che ha lavorato con nomi importanti come Arctic Monkeys, Last Shadow Puppets, Mumford & Sons, Foals e Florence and The Machine. 

Una scelta che ha evidenziato ancora una volta quella che può essere considerata la più grande dote di questa band: rimanere sempre costantemente al passo coi tempi, saper leggere con intelligenza il contesto musicale del presente e muovercisi dentro senza apparire spaesati ma, nello stesso tempo, senza neppure cavalcarne passivamente l’onda. 

Perché quando si parla di elettronica invecchiare è facilissimo e la tentazione che i tre inglesi vengano presi per dei vecchietti ancora dediti nostalgicamente alle loro cose, è piuttosto forte (del resto lo raccontava divertito il singer Dave Gahan qualche anno fa, che sua figlia si vergogna di lui perché lo considera un esponente della “musica vecchia”!). 

Ma i Depeche Mode non sono i Kraftwerk, sebbene in quest’ultimo lavoro abbiano in qualche modo provato a guardare anche da quelle parti. I Depeche Mode sono una band costantemente in ricerca e questo “Spirit” è riuscito a dimostrarlo una volta di più. 

Partiamo dalla considerazione, banale ma mai scontata, che l’elettronica per loro è sempre stata un mezzo, mai un fine. Probabilmente non la pensavano così ai tempi dei primissimi lavori, quando, con “Speak & Spell”, era il talentuoso Vince Clarke ad occuparsi della scrittura e l’accostamento alla scena New Romantic non era certamente fuori luogo. Fu così fino a “Construction Time Again”, anche se Clarke aveva ormai lasciato il posto a Martin Gore nel ruolo di compositore principale. 

Da “Some Great Reward” in avanti, i Depeche Mode sono diventati soprattutto un gruppo rock blues, che si veste di elettronica ma ha, al fondo del proprio essere, un’anima profondamente analogica. 

Invecchiando, questa doppia natura è emersa ancora di più, fino a diventare evidente in brani come “Heaven” o “Slow”, dal precedente (per chi scrive bellissimo) “Delta Machine”. 

E così arriviamo a “Spirit”. Dove, per l’ennesima volta, è in atto una rivoluzione. Perché a questo giro la cupezza dei temi si riflette direttamente nella cupezza dei suoni. Non che i dischi precedenti fossero allegri, ma almeno c’erano alcuni episodi maggiormente aperti, durante i quali si poteva respirare. Qui no. Qui per cinquanta minuti si sta con la testa sott’acqua, godendo sì per le impressioni affascinanti che vengono comunicate ma allo stesso tempo chiedendosi quanto ancora potrà durare questa sensazione di soffocamento. 

È un disco senza singoli, “Spirit”. E questo, per una band come la loro, potrebbe essere una colpa imperdonabile. Invece lo ascolti tutto di fila e ti accorgi che era proprio così che doveva essere. Certo, ci sono i momenti di picco assoluto e ci sono quelli meno memorabili, più di routine. Ma dipende più dal grado di riuscita dei brani e dal gusto personale di chi ascolta. Perché per il resto, “ siamo di fronte ad un disco che va ascoltato tutto di fila, dalla prima all’ultima nota. 

La produzione di Ford ha senza dubbio accentuato la componente “sintetica” del sound. Ci sono più campionamenti, più suoni, più “rumori”, più beat. E la voce di Dave Gahn è a volte pesantemente filtrata, come se dovesse divenire un tutt’uno con le tessiture musicali di cui i brani sono ammantati. 

L’iniziale “Going Backwards” è già pura meraviglia e ci introduce nell’album come nessun’altra canzone avrebbe potuto fare. Accordi solenni di pianoforte puntellano la voce di Dave, distesa e drammatica come sempre, in splendida forma nonostante gli anni che passano. Dalla seconda strofa in avanti entrano sia la batteria che i beat elettronici e il suono si fa via via più stratificato e colorato. Il ritornello non è esplosivo, è in continuità con quanto ascoltato prima e si limita semplicemente a constare che: “Stiamo andando indietro, riportando indietro le lancette della storia. Stiamo andando indietro, accumulando miseria su miseria.”. È uno straordinario break centrale, sostenuto da un riff di quella che potrebbe essere una chitarra passata attraverso un synth, a costituire il vero cuore del brano. Ed è inevitabile immaginarci gli stadi strapieni di quest’estate, ballare impazziti su queste note, che è quasi certo fungeranno anche da apertura del concerto. 

La successiva “Where’s The Revolution” non sposta di una virgola le coordinate sonore. “Dov’è la rivoluzione? Forza popolo, mi stai deludendo!” canta Dave Gahan in uno dei ritornelli meno da hit single che si siano mai sentiti nella loro discografia. C’è una forte componente ironica in questo testo (nel video lo si capisce di più, dato che i nostri hanno barbe lunghe da Karl Marx e si muovono in un immaginario da luogo comune sovietico) ma neppure così tanto. Lo hanno detto in tanti, in questi mesi: “Ma con tutto quello che sta succedendo nel mondo, perché la gente non scende in piazza? Perché non si ribella sul serio?”. La risposta è molto più complessa: tira in ballo quel che Solzenycin disse ad Harvard nel 1978, in tempi ancora non sospetti e probabilmente non ci piacerebbe granché. Resta il fatto che ad un certo punto, a metà brano, arriva una sezione che è una sorta di Gospel riletto in chiave Electro, con tanto di mantra “Il treno sta arrivando, salite a bordo”, che è tipico di tanti brani della tradizione afroamericana (uno come Bruce Springsteen, per fare un nome a caso, lo ha ripreso in dosi massicce nella sua “Land of Hope and Dreams” ma hanno fatto una cosa simile anche gli Arcade Fire in “No Cars Go”): allora viene quasi da pensare che, sotto sotto, una speranza, per quanto flebile, ci sia. Che forse questo mondo non sia davvero solo un Maelstrom, come pensano loro, ma si possa ancora trovare da qualche parte la forza di ripartire. 

“Dai la colpa alla disinformazione, a leader mal guidati, all’esitazione apatica, a lettori diseducati. Qualunque sia la ragione, ora ci troviamo in mezzo a questo. Siamo tutti accusati di tradimento, e non c’è nessuno che ci possa ascoltare.”

Le liriche di “The Worst Crime” sono suggestive (all’interno di un brano piacevole ma non indispensabile, dove il ritmo lento e gli archi sintetizzati disegnano un’atmosfera quasi elegiaca) e parlano di un senso di colpa che non si può definire ma neppure cancellare. Siamo tutti colpevoli, in qualche modo. Non sappiamo perché ma, allo stesso tempo, non possiamo neppure negare che sia vero. Non è uno degli episodi migliori ma è interessante notare come Gahan cerchi qui un modo diverso di cantare, dove si avvertono gli echi del suo lavoro con i Soulsavers (l’ultimo disco, “Angels & Ghosts”, è del 2015), una collaborazione che significato molto per lui e che gli ha aperto senza dubbio nuovi orizzonti sonori. 

“Scum” è invece uno dei picchi di questo lavoro. Un brano cupo e martellante, cadenzato e ossessivo nel suo andamento, con beat aggressivi a sottolineare un ritornello urlato con rabbia. Quel “premi il grilletto”, riferito alla “feccia” evocata nel titolo, è senza dubbio un duro atto di condanna verso il possesso e l’uso delle armi all’interno della società americana. 

Con “You Move” invece, succede una cosa strana. Il brano, che si muove con un ritmo stranissimo, da tempo dispari, ha in realtà una struttura tradizionale ed è un bel blues strascicato dove il contrasto tra le parole abusate e scanzonate del ritornello (“Mi piace il modo in cui ti muovi”) contrastano volutamente con l’inquietudine evocata dal pattern sonoro. Quella che appare come una “It’s No Good” disturbata, costituisce il primo episodio di una trilogia dove l’amore torna in primo piano, anche se con una domanda pressante: in un mondo del genere, dove tutto sembra andare in pezzi e i rapporti umani sono all’insegna della prevaricazione e dell’odio, è ancora possibile innamorarsi, fare figli, prendersi cura l’uno dell’altro? 

Se “You Move” (che per inciso è un altro pezzo strepitoso, uno degli highlight di questo disco) indaga la componente più sensuale del rapporto, la successiva “Cover Me” ci conduce all’interno di una relazione di lungo corso che non riesce a trovare una strada per resistere (“L’aria è così fredda qui, è difficile respirare. È meglio che cerchiamo riparo: mi riparerai? Ho immaginato noi due in un’altra vita, una vita che non abbiamo mai raggiunto.”). 

Siamo al cospetto di un’altra grande canzone, una ballata emozionante con un Gahan sugli scudi, un pezzo che non abbandona mai il tono crepuscolare e che, nel finale, si concede una divagazione elettronica che fa quasi da titolo di coda e insieme da introduzione per “Eternal”, allo stesso tempo apertura di un ipotetico Lato B e ultimo episodio di questa ideale trilogia. 

“Povera piccola, ti proteggerò e ti circonderò col mio amore, sarò sempre qui per te e quando la nuvola nera si alzerà  e le radiazioni si diffonderanno, ti guarderò negli occhi, ti bacerò e ti darò tutto il mio amore. Proprio come ogni uomo farebbe.” 

È un breve interludio per voce e archi, un brano suadente e delicato, forse l’unico barlume di luce che si intravede in questo piccolo viaggio. È il primo dei due pezzi cantati da Gore (che normalmente se ne concede sempre qualcuno ad ogni disco) e il suo timbro sottile racconta una storia di amore e dedizione che allo stesso tempo però ci inquieta: Basterà la buona volontà? Basteranno i sentimenti? Se il mondo verrà distrutto, ci sarà ancora spazio per volersi bene? 

Non c’è risposta. O forse c’è, ma di sicuro i nostri non la vogliono dare. La seconda parte del disco rimane sempre su un livello alto ma è in qualche modo più ordinaria, come se la band si fosse ricordata che ha trenta e passa anni di carriera sulle spalle, un talento infinito nello scrivere pezzi e quindi ogni tanto ci si può anche rilassare e le cose eccellenti verrano fuori comunque. 

Da questo punto di vista, “Poison Heart”, “So Much Love” e “No More (This Is The Last Time)”, si muovono su coordinate già note e sembrano più in linea con certe cose dei due dischi precedenti: rock da stadio confezionato alla grande, con un tiro che li renderà sicuri punti di forza nella setlist del prossimo tour. Sarà anche ordinaria amministrazione, ma quante band lo sanno fare così? 

Anche questa “seconda facciata” ha i suoi clamorosi punti di vertice: il primo è “Poorman”, un blues saturo di beat e distorsioni, con un ritornello drammatico e meravigliosamente teso, che costituisce anche il più esplicito grido politico di questo disco. 

E poi c’è “Fail”, che non a caso arriva per ultima e che chiude il disco quasi in punta di piedi, con Martin che, senza pochi fronzoli, canta che “Le nostre anime sono corrotte, le nostre menti sono incasinate, le nostre coscienze sono andate in bancarotta. Siamo fottuti”. 

Lasciamo ad altri il compito di stabilire se questa sia o meno una lettura plausibile. A noi interessa dire che ancora una volta i Depeche Mode hanno tirato fuori un grande album. Un album non semplice, forse il meno immediato della loro lunga carriera; un album che necessiterà di tempo, dedizione e pazienza. E che forse già per questo parte svantaggiato, in un’epoca di mordi e fuggi dove anche solo concentrarsi su un singolo sta diventando un’impresa titanica. 

Per chi avrà voglia di cimentarvisi, però, qui c’è un intero mondo da scoprire. E consentitemi di chiudere ribadendo che nessuna band, a 36 anni dal disco d’esordio, è mai stata così dentro il tempo presente e desiderosa di non perdersi il meglio, come i Depeche Mode. 

In “Spirit” non c’è posto per la nostalgia. Con buona pace di tutti quelli che, inevitabilmente, hanno già ripreso a dire che “È da vent’anni che non fanno un disco decente” o “Eh ma “Personal Jesus” era un’altra cosa!”. 

Ci si vede a giugno.