Il bisogno vitale nel 2017 di un artista della caratura di Don Backy è presto detta. In uno scenario che si agita tra parvenze isteriche di arte “da talent” e bignami d’autore che scalano le classifiche con proposte musicali di dubbio livello imbottite di pensierini profondi formato famiglia, poter contare su chi vanta una capacità inusuale di imprimere un’impronta universale e sentori di eternità all’intreccio quotidiano di sentimenti e relazioni, sa di opportunità preziosa e unica.



Don Backy, al secolo Aldo Caponi classe 1939, l’ha fatto negli anni con il piglio che si addice al suo temperamento da profondo orgoglio locale, proponendosi di continuo senza lasciarsi intimidire dallo scarto sistematico che lo ha tenuto lontano dai riflettori che contano. Il benservito dal festival dei fiori l’aveva avuto di recente con Vent’anni. Lo scorso anno, già in predicato di rilasciare il nuovo lavoro, ha fatto il bis sotto la gestione Conti. Poco male, perché il grande guascone partorito dalla genuina toscana manifatturiera, fa proprio dell’artigianato di pregio la cifra primaria che lo rende tuttora distintivo e indispensabile all’approssimarsi delle settantotto primavere.



Un lasso di tempo occupato da un bel disco targato 2010 a metà tra best e inedito, quel “Mestiere delle Canzoni” impreziosito dalla splendida ballata in codice melodico primi ’70 di Vent’anni e dalle nutrite incursioni di Caponi nella sua gavetta da balera. Il nuovo album “Pianeta Donna” rivoluziona il concetto dell’azzardo d’artista, srotolando con rianimata consapevolezza, malizie ben dosate e provocazioni naif (la vena schiettamente locale della copertina), la mappa della canzone fatta come una volta.  Quella che sguscia con disinvoltura tra melodia nostrana, stoccate americane e cenni al patrimonio rock dei ’70.



Tredici canzoni, per un album che oltre alla rilettura di Pregherò (di cui il nostro ha scritto la celebre versione italiana) ci offre un autore letteralmente in stato di grazia supportato dal lavoro certosino dell’alter ego musicale Enzo Polito (pianoforte, tastiere, fisarmonica, direzione d’orchestra), e di un manipolo di musicisti presi equamente tra il resto della famiglia Polito e una serie di ottimi turnisti.

Un disco che – mettendo a tema l’insostituibile energia della figura femminile nella sua presenza come nella sua mancanza – lusinga e avvince nella gran parte del suo tragitto.  Vi si può sorprendere il redivivo gusto della canzone sposata alle orchestrazioni da varietà in Cavallo pazzo, così come la verve scanzonata delle ballatone anni ’50 che si riempie di tinte euforiche in Mai più o che svaria sulla citazione dei Supertramp di My Kind of Lady nell’inno di Pianeta donna.

Ma ci sono soprattutto cinque piccoli grandi capolavori che ravvivano la fama del Backy prestigiatore della canzone con fluidità che conosce pochi pari.  Emblematica l’introduttiva La porta del paradiso dove la poetica d’autore di monumenti come L’immensità e Canzone, viene rievocata da una linea melodica e lirica che tiene insieme sentore d’eternità e labilità del sogno.  Rapsodia ne esalta l’abilità nel produrre variazioni d’effetto con la massima naturalezza, mentre lo zibaldone rock ’70 di Rapsodia in red riacciuffa persino la vena eclettica della seconda maniera (il pregevole “Vivendo Cantando” del 1979 prodotto da Radius).  Ritmi squadrati, citazioni dall’epopea prog nostrana, dalle Orme alla PFM fino all’opera rock dei Queen, vengono felicemente rivestite dell’inconfondibile respiro confidenziale dell’orchestra da vecchio varietà del sabato sera.  

Brinderò (virtuale singolo apripista) omaggia una volta di più questa creatività che si serve della citazione in funzione corroborante, pescando dalla chiusura corale della Mina di E poi per ricamarci su con il piglio felpato dello chansonnier.  L’unica tra queste perle a non provenire dalla penna del protagonista, è la tenerissima Non è un addio, reperto sessantesco dal vecchio compagno di avventure Alberto Senesi, che regala a Backy uno splendido bozzetto acustico sospeso tra melodia italiana d’antan e nostalgie folk anglo-americane.

Il terzetto di puro alleggerimento con Farfalla, Arriva Maria e Cuore di Pietra riporta il nostro ai sempre cari disimpegni rilassati tra balera, dancing e r’n’b casereccio.  E’ solo un attimo perché quest’ultimo grande Backy punta decisamente a stupire, e sceglie di farlo con una Nel vento che – prendendo spunto dalla Fallaci di Lettera a un bambino mai nato –  mette in scena una doppia immedesimazione tra i pensieri della madre e la risposta immaginaria del bambino.  La melodia carica e malinconica, l’intarsio acustica-fisarmonica-minimoog, la voce che sussulta dal profondo, coronano il tutto. 

Gioco, partita e incontro Don Backy, forse l’ultimo romantico di una musica italiana che non c’è più ma che non si vergogna di farsi ancora bella e soprattutto non vuole saperne di morire.  Eroismo cruciale in questi nostri tempi di sconvolgimenti veri o presunti.