Neal Morse è un autore prolifico, lo sappiamo da tempo. Prima coi suoi Spock’s Beard, poi con i dischi solisti, ha messo insieme un nutrito corpus di lavori a tema, molti dei quali doppi, tutti all’insegna del Prog Rock più classico; derivativo, certo, ma non per questo meno piacevole. 

Il suo cammino in solitaria è legato alla sua conversione al cristianesimo, ben raccontata in “Testimony”, il doppio album del 2003 incentrato sulle sue vicende biografiche, sfociate nella scoperta della fede. Da allora l’esperienza religiosa è stata sempre più o meno alla base dei suoi lavori (Morse è anche un membro molto attivo della sua chiesa di Nashville e ha scritto anche diverso materiale liturgico da utilizzare durante le funzioni) ma non è mai stato un impedimento né per i musicisti con cui lavora né per i fan che ne seguono il cammino. 



Anzi, la sua grande umanità e positività, il suo amore per la musica e per il proprio lavoro, che indubbiamente la fede ha contribuito a plasmare, sono ciò che tutti quelli che ne hanno incrociato la strada, hanno apprezzato di lui. 

“The Similititude of a Dream”, il suo nuovo disco, uscito a novembre, è tanto per cambiare un altro concept album (c’è da dire però che i precedenti “Momentum” e “The Grand Experiment” si erano discostati da questa formula) ed è nuovamente un doppio. Interessante il tema: si tratta della rivisitazione di “The Pilgrim’s Progress”, il romanzo di John Bunyan, scrittore inglese del XVII secolo, incentrato sulle vicende di un pellegrino che lascia la sua città, abbandonando la sua famiglia che non vuole seguirlo, per recarsi in un luogo migliore e che durante il viaggio incontra tutta una serie di persone che tenteranno di ostacolarlo o di aiutarlo. Si tratta di un’opera allegorica, che attraverso una storia inventata ha il compito di descrivere il cammino dell’uomo dal peccato alla redenzione, dall’inferno al paradiso. Piuttosto nota in Gran Bretagna (ne sono stati fatti adattamenti cinematografici e televisivi negli anni passati), nel nostro paese risulta pressoché sconosciuta, nonostante l’ultima traduzione risalga al 2013. Probabilmente saranno i fan di Neal Morse, adesso, i più esperti sull’argomento! Da questo punto di vista, il musicista americano ha compiuto davvero un’interessante opera di divulgazione. 



Dal 2015, con l’uscita di “The Grand Experiment” si è iniziato a parlare ufficialmente di The Neal Morse Band: al bassista Randy George e al batterista Mike Portnoy (noto ai più per essere stato membro storico dei Dream Theater), che da sempre collaborano col nostro, si sono aggiunti il chitarrista Eric Gillette e il tastierista Bill Hubauer, che già comunque avevano lavorato con Morse in precedenza. I cinque hanno unito le forze e sono diventati un vero e proprio gruppo, che unisce le idee anche nella composizione dei pezzi. 

Naturale dunque che il tour di supporto al nuovo disco, che questa volta ha toccato anche l’Italia, li veda tutti grandi protagonisti. 



I Magazzini Generali di Milano non sono esattamente la location più adatta ad un concerto di questo tipo, soprattutto per la pessima resa sonora che normalmente offrono. 

Non pensavo invece che la capienza sarebbe stata un problema, per cui rimango piacevolmente sorpreso quando, arrivato sul posto, scopro che la sala è già bella piena e che ad occhio e croce ci saranno 500 persone presenti. Un ottimo risultato, se si pensa che un artista del genere non ha mai goduto di grande popolarità nel nostro paese e che spesso e volentieri non è riuscito ad includere l’Italia nei suoi giri europei (a memoria, credo che il suo ultimo passaggio da solista risalga al 2013). 

Si inizia puntuali, poco dopo le 21, con un’intro sinfonica preregistrata che presenta una sintesi di tutti i temi principali del disco; è poi il solo Neal Morse a fare il suo ingresso on stage, con un cappuccio nero sulla testa ad imitazione di un pellegrino ed una torcia ad illuminargli il volto. Si posiziona al centro del palco, dove è montata la tastiera che userà per gran parte del concerto e attacca con “Long Day”, che costituisce l’introduzione della storia. 

Uno ad uno, accolti dal boato caloroso del pubblico, entrano in scena gli altri musicisti e con l’attacco dell’Overture strumentale che dà inizio al disco, si entra nel vivo del concerto. 

Come era prevedibile (e come del resto era già da mesi annunciato) la scaletta di ogni concerto prevede l’esecuzione integrale di “The Similitude of a Dream”, con solo  una breve pausa tra la prima e la seconda parte. Una scelta azzeccata, probabilmente l’unica possibile perché questo lavoro, molto più degli altri concept firmati da Morse, pur essendo articolato in singoli capitoli, può essere goduto veramente solo se suonato per intero; tanti sono infatti i rimandi tra un pezzo e l’altro, i temi che si inseguono e che dialogano tra loro, e lo sviluppo musicale spesso e volentieri si articola senza tenere conto della divisione in tracce. Estrapolare singole canzoni, per quanto sarà quel che verrà fatto negli anni successivi, immaginiamo, non sarebbe stata la scelta migliore per un tour di supporto. 

E così si parte per un viaggio di circa due ore, con la band che suona accompagnata da visual che scorreranno per l’intera durata dell’esecuzione, animando le varie canzoni e cercando di dare un’idea generale di quello che sta accadendo nella storia (anche se, l’unico modo per capirlo davvero è leggersi i testi). 

I suoni, incredibile ma vero, sono quasi perfetti (complimenti vivissimi ai fonici) e ci possiamo godere alla grande ogni singolo momento di questo show. Il disco, poi, è forse la vera sorpresa. Lo avevamo già ascoltato parecchio, ovviamente. Mike Portnoy, un mesetto prima dell’uscita, aveva rilasciato dichiarazioni roboanti, tirando in ballo termini di paragone scomodi e pericolosi (tipo “The Lamb Lies on Broadway”, giusto per capirci) che avevano fatto salire le aspettative a dismisura ma che avevano anche deluso alquanto, una volta avuto tra le mani il doppio cd. “The Similitude of a Dream” è indubbiamente un bel disco, piacevole e coinvolgente, che presenta il solito approccio “Pop” (perdonatemi se uso questo termine) alla scrittura, che ho sempre ritenuto essere il punto di forza di Morse: brani di grande impatto con melodie orecchiabilissime, pur all’interno della complessa struttura musicale tipica del Progressive Rock. Piacevolezza a parte, però, il trademark sonoro è sempre quello, i momenti di deja vu sono parecchi e nonostante la freschezza e la scorrevolezza siano innegabili, altrettanto innegabile è che non si tratti di un capolavoro. 

Ascoltandolo dal vivo, però, qualcosa cambia. I pezzi hanno un tiro maggiore, vedere suonare la band permette di cogliere meglio il fluire del percorso e il passaggio tra le varie sezioni, il suono nitido permette di apprezzare sfumature che sul disco erano apparse un po’ sacrificate. Sarà dunque sempre il solito disco di Neal Morse, dunque, ma in questo contesto si comprende di più che si tratta davvero di un lavoro riuscito. 

Neal poi è un autentico mattatore: da un concerto Prog ci si aspetterebbe serietà e rigore ma lui non è mai stato così. Precisissimo, certo (tutta la band fila come un treno e non sbaglia un colpo, le parti strumentali soprattutto sono sempre un vero spettacolo) ma anche sempre molto attento alla presenza scenica: si fa coinvolgere dalla musica, salta, incita il pubblico a cantare i refrain più orecchiabili, interagisce in continuazione coi suoi musicisti dimostrando di divertirsi un mondo. 

Del resto lo show, nonostante sia incentrato sulla riproposizione di un intero disco, è piuttosto vario e coinvolgente. I momenti in cui i nostri fanno sfoggio della loro tecnica strumentale sono ovviamente molti, ma non mancano incursioni nel Rock più ammiccante e ruffiano, episodi in cui la coralità dei nostri viene messa al servizio di sonorità evocanti i Queen di “A Night At The Opera”, ma anche punti in cui sono i Beatles (altro grande amore di Morse) a fare capolino. Coinvolgenti anche i momenti acustici, nella seconda parte: “Shortcut to Salvation” e “Freedom Song” (quest’ultima fortemente influenzata dalle sonorità di quella Nashville in cui l’ex Spock’s Beard vive da anni) che dimostrano come Neal Morse, al di là dei concept da due ore che ama firmare, sia soprattutto un grande autore di canzoni. 

Colpisce anche l’affiatamento di una band che ormai è un insieme coeso in tutto e per tutto, soprattutto per quanto riguarda le parti vocali, che Gillette e Hubauer prendono a più riprese su di loro (necessario ai fini della sceneggiatura, per dare voce ai vari personaggi, ma anche una scelta vincente dal punto di vista della resa musicale) con risultati davvero notevoli. 

Per quanto riguarda Portnoy, che è un po’ la seconda attrazione del concerto: non nego di non averlo mai sopportato. Il suo ego strabordante, la pretesa di dettare ritmi e decisioni artistiche ai suoi ex compagni dei Dream Theater, sono stati motivi di insofferenza che ne hanno alla fine provocato Il licenziamento (sebbene nessuno l’abbia mai ammesso apertamente). 

Assieme a Morse (con cui ha iniziato a collaborare a partire dalle registrazioni di “Testimony”) sta facendo un po’ la stessa cosa, seppure in maniera meno esagerata, e francamente non si capisce perché debba prendersi dello spazio per parlare al pubblico, o addirittura per cantare (dovrebbero votare una legge che gli impedisca di avvicinarsi al microfono!). Ciononostante, il pubblico lo ama, il suo personaggio ormai è questo e non c’è davvero nulla da eccepire per quanto riguarda le sue capacità tecniche. Ce lo faremo andar bene anche questa volta. 

Terminato il disco, i cinque scendono dal palco ma vengono immediatamente richiamati indietro dalle urla e dagli applausi dei presenti, che proprio non ne vogliono sapere di andare a casa. Purtroppo il tempo non è molto, la stanchezza comincia a farsi sentire, in più il gruppo è arrivato con due ore di ritardo da Barcellona, causando tutta una serie di comprensibili disagi. Sono dunque solo due i bis suonati questa sera: tagliato il classico “Author of Confusion”, giudicato probabilmente troppo lungo, e via con due estratti dal disco precedente: la rockeggiante “Agenda” e l’ottima “The Call”, che con le sue melodie ariose è l’ideale per chiudere lo show e mandare tutti a casa. 

Ancora una volta Neal Morse si è rivelato uno dei più grandi artisti Prog attualmente in circolazione. Probabilmente per i più intransigenti la sua proposta apparirà eccessivamente semplice e lineare, ma non è da tutti riuscire ad essere così coinvolgenti pur all’interno di un genere così complesso. Speriamo solo non debbano passare altri quattro anni per vederlo di nuovo in azione.