Andrea Chénier di Umberto Giordano è opera ancora apprezzata dal pubblico (ne ricordo nuovi allestimenti tra il 1998 ed il 2006 a  Bologna, Catania e Venezia oltre che nei teatri ‘di tradizione’ dell’Emilia Romagma) ma maltrattata dalla critica. Eppure in questo anno di grazia 2017 il Teatro dell’Opera di Roma e La Fenice presentano un nuovo allestimento. Un altro il 7 dicembre inaugurerà La Scala. Altri ancora si sono visti ed ascoltati di recente a Monaco di Baviera, all’Opéra di Parigi ed al Liceu di Barcellona. Quindi, regge ancora nonostante la difficoltà di trovare voci (specialmente quelle tenorili) imperniate sul centro (ma  in grado di ascendere e svettare anche in tempi molto rapidi sia di discendere delicatamente) e  la macchinosità di un libretto considerato polveroso



Al Teatro dell’Opera di Roma mancava da 42 anni, anche se ne era vista ed ascoltata un’edizione nella stagione estiva (allora a Piazza di Siena) nel 1996. Chénier è, innanzitutto, un’opera di voci. Ciascun dei tre protagonisti (un tenore drammatico spinto, un soprano lirico puro ed un baritono) ha almeno due arie o romanze che possono portare all’applauso a scena aperta e otto personaggi in ruoli minori, ma che  hanno modo e maniera di farsi valere ed apprezzare. 



Non mancano, secondo le usanze dell’epoca, interventi del corpo di ballo. L’orchestrazione è all’apparenza relativamente semplice (anche se richiede un grande organico) ma cela molte anticipazioni (incluso il “chiacchierar cantando”) che diventeranno fondamentali nel Novecento Storico.  E’ un esempio di dramma storico (anzi “istorico” seguendo la dizione della versione originale del libretto) che prende le distanze dal melodramma e si situa verso quella che sarebbe stata la caratteristica dei “drammi in musica” della “giovane scuola”: una vicenda relativamente semplice (nel caso in questione una situazione imperniata su differenze di classe sociale) situata in contesto storico (dall’inizio della rivoluzione francese ai momenti più oscuri del Terrore giacobino) trattato come un grande affresco e, quindi, popolato di figure minori ma ciascuna con una propria marcata personalità.



Da un lato, appartiene al filone “grand opéra padano”, una concezione tutta italiana in cui, esauritasi l’epoca del melodramma verdiano, si tentò di fondere elementi del grand opéra  francese con elementi wagneriani. Secondo Fedele D’Amico, durò appena 12 anni, e riguardò essenzialmente l’area tra Bologna e Milano; ora gran parte dei suoi autori (Franchetti, Rossi) non si rappresentano più. Da un altro, su Giordano pesava l’accusa di avere composto un’opera (Il Re) dedicata a Mussolini ed al cui libretto aveva messo mano il Capo del Governo di allora in persona. In effetti, al pari di  Mascagni, il genius loci di Foggia nacque socialista (e sindacalista) ma fece di tutto per diventare membro di quell’Accademia d’Italia che doveva rappresentare il fiore all’occhiello dell’intellinghentia fascista. Di Mascagni gli mancavano sia la vocazione inarrestabile all’intrallazzo sia i toni un po’ caotici, arruffoni e costantemente sopra le righe, ma aveva una predilezione per libretti così conservatori da essere reazionari – e comunque in difesa del “law and order” (“legalità ed ordine pubblico”). In Siberia chi pecca deve espiare e redimersi. In Fedora i nichilisti sono visti come il peggio dell’umanità. In Madame Sans-Gêne è tutto un ringraziare Napoleone Bonaparte per come mette a posto quegli ex-rivoluzionari che avevano conservato la testa un po’ troppo calda. In Mala vita (che dovette emendare nel libretto e nel titolo – diventò Il voto– su richiesta di Mussolini il quale la riteneva pericolosa per i giovani e le famiglie dato che trattava di bordelli)- si esaltava l’ordine costituito. Per non parlare di Mese mariano, il cui titolo già dice tutto, o della commedia musicale Giove a Pompei”(lontanissima da una satira graffiante tipo Orphée aux Enfers) oppure de La cena delle beffe, rivista l’anno scorso alla Scala acclamata, nel 1924, come il simbolo dell’italianità musicale del Novecento .

Andrea Chénier ritorna in grande spolvero e a richiesta di un pubblico che (come dicono le cronache cittadine di questi mesi) vuole law and order e detesta i giacobini. In Andrea Chéniersi tesse l’elogio dell’aristocrazia (pronta a morire pur se innocente) e si condannano senza appello i giacobini (il cui parvenu Gérard diventa un tagliateste pur con il cuore buono ed il pentimento facile). La scrittura musicale e vocale ci mette del suo: ingrandisce tanto i “buoni” (gli aristocratici ed il poeta girondino) quanto i “cattivi” (i giacobini). Quando l’opera ebbe la prima alla Scala il 28 marzo 1896 ci fu chi vi lesse una critica nei confronti della sinistra di Depretis (il sogno del ritorno della “destra storica”, nobile e rinascimentale).

Il nuovo allestimento di Marco Bellocchio – scene di Gianni Carluccio, costumi di Daria Calvelli, coreografia di Massimiliano Volpini- è lussuoso e tradizionale. Bellocchio avrebbe potuto osare di più; lasciar perdere parrucche e crinoline e dato che siamo nell’anno del centenario della rivoluzione di ottobre, trasferire il tutto a  San Pietroburgo e Mosca nel 1917, Tuttavia, parrucche, crinoline, grandi saloni e ghigliottine sono piaciuti al pubblico del Teatro dell’Opera.

La vera scoperta è l’orchestrazione. Chénier è spesso affidato a maestri concertatori che considerano l’ orchestra un supporto alle voci. Roberto Abbado ha scavato nella raffinata orchestrazione, nei colori e nelle tinte di un dramma che va da eleganti Palazzi aristocratici , alla confusione della Parigi rivoluzionarie, al tribunale del popolo, al carcere come anteprima della ghigliottina. Ci sono temi conduttori che ripetuti a breve distanza ed in chiavi differenti hanno un ruolo centrale. L’importanza di questa funzione è spesso sottovalutata da maestri concertatori routiniers.Il coro (diretto da Roberto Gabbiani) ha cantato e recitato molto bene. E’ uno dei protagonisti di questa produzione

Andrea Chénier è opera di grandi voci, specialmente per il tenore: una parte impervia in cui si sono cimentati Pertile, Caruso, Gigli, Domingo, per non citare che i più noti. La difficoltà maggiore è nel passare dal declamato, dal recitativo e dal ‘chiacchierar cantando’ ad ariosi che portano a acuti in ‘do maggiore’ senza neanche un breve arresto dal ‘recitar cantando’. Gregory Kunde, in carriera del 1978, ha gestito molto bene il proprio strumento, nonostante costretto, anni fa, ad un’interruzione di professione a causa di una malattia. In una prima fase, è stato un grande tenore rossiniano di coloratura. In una seconda un tenore drammatico, più che lirico, generoso nella vocalità. Il 21 aprile, sera della ‘prima’, ha avuto ovazioni a scena aperta dopoUn dì nell’azzurro spazio e Come un bel dì di maggio.

Maddalena è Maria José Siri, un soprano drammatico di livello, Anche per lei ovazioni a scena aperta dopo La mamma morta . Roberto Frontali è un veterano del ruolo di Gérard, Impossibile commentare tutti gli altri. Nel buon cast emerge . Elena Zillo nel ruolo della madre che, dopo avere perso marito e figlio, manda il nipote adolescente a combattere per la Francia.