Gli storici dell’economia ricordano che, prima dell’attuale, ci furono altre due fasi di integrazione economica e culturale internazionale, quella tra il 1870 ed il 1910 sulla spinta del progresso tecnologico specialmente nel settore dei trasporti e quella della Spagna di Carlo V “sul cui impero non tramontava mai il sole” grazie alle conquiste transatlantiche, ai possedimenti nelle Fiandre ed alle alleanze strategiche, tramite un complicato intreccio di matrimoni, con la Francia e la Gran Bretagna. Quella di Carlo V fu una stagione breve: l’Inquisizione la minò internamente (con l’istituto della delazione che distrusse la base patrimoniale dell’Impero) e la nascita degli Stati nazionali (tra cui quello delle Libere Province Unite nei Paesi Bassi) la frantumò esternamente.
Don Carlo, l’opera forse più squisitamente politica di Giuseppe Verdi, tratteggia, nelle due versioni in quattro e cinque atti (la seconda è raramente eseguite in Italia), l’inizio della fine di questa fase di globalizzazione; traccia, quindi, l’avvio alla deglobalizzazione mettendo in scena il decadimento degli Asburgo nel passaggio da Carlo V (sempre presente in spirito ma mai sul palcoscenico – non si sa se è morto o se si è invece celato al mondo, nel Monastero di San Giusto) a Filippo II in contrasto con il Grande Inquisitore e con il proprio figlio – l’”infante” Don Carlo.
Don Carlo è la grande ’”incompiuta” di Giuseppe Verdi. Lo è più d’altre sue opere più volte rielaborate nel corso degli anni quali Simon Boccanegra, La forza del destino e Stiffelio. E’ la sola che non ha avuto una versione definitiva se non si considera tale quella “di Modena” del 1886 che riprendeva in versione ritmica italiana, ma scorciandola, l’edizione originale parigina del 1867; l’”ur-Don Carlo” parigino richiede circa 7 ore di spettacolo, include mediocri ballabili; i tentativi di riesumarla, in lingua originale e con il lungo (25 minuti) ballo del terzo atto, sono stati deludenti.
Per ragioni di durata, in Italia è invalso l’uso di rappresentare la versione “di Milano” o “della Scala” del 1884 in quattro, invece, che in cinque atti, da cui si perde, musicalmente e drammaticamente, l’“atto di Fontainebleau”, premessa essenziale della vicenda e soprattutto momento onirico di ricerca dell’utopia. Viene a mancare anche il nesso con la globalizzazione: nell’atto, il giovane Don Carlo s’innamora, nella foresta imbiancata dalla neve, della giovanissima Elisabetta di Valois, ma non sa che essa è destinata in sposa a suo padre, Filippo II, proprio per rispondere ad un disegno geo-politico di integrazione economica, strategia e culturale (si badi ai richiami, nel secondo quadro del secondo atto, alle “canzoni saracene” ed all’eleganza e modernità nella lontana Parigi).
Sotto il profilo musicale, le tre versioni del Don Carlo sono tavolozze di un percorso tra il melodramma (quale codificato, proprio da Verdi, a metà Ottocento) ed il dramma in musica compiuto quale è Aida, pur realizzata 14 anni prima del Don Carlo modenese e solo un lustro dopo quello parigino. Delle tre versioni, la parigina (che vidi nella prima messa in scena integrale, quella diretta e concertata dalla Caldwell nel 1973 ed ascoltai più volte nella registrazione di Abbado peraltro di poco successo commerciale) è la più incompiuta: ha pagine bellissime (espunte nelle altre) quali il coro dei cacciatori ma anche lunghe sezioni in cui Verdi ha forse composto bendato (il ballabile “La Perégrine”). La versione “di Milano” è la più compatta ma l’afflato geopolitico assume un ruolo secondario rispetto al complicato intreccio di amori, di politica di palazzo e di religione di stato. La versione “di Modena” è la più matura; ripristina l’atto di Fontainebleau; taglia i ballabili; ritocca qua e là il resto dell’immensa partitura con il senno che Verdi aveva nel 1886. E’ la versione di prammatica al Metropolitan, all’Opéra e al Covent Garden.
Complessa, comunque, la messa in scena: non c’è bisogno solo di sei grandi voci, e circa di 18 comprimari, di un doppio coro ma anche di interpreti ed orchestra versati sia nel melodramma sia nel dramma in musica. Ardui i problemi della regia: nei sette quadri, otto nella versione “di Modena”, sul fondale storico della crisi dinastica degli Asburgo e su quello contemporaneo (per Verdi) di guerre d’indipendenza, si accavallano i temi della fragilità del potere, dell’intolleranza religiosa, degli amori proibiti, dell’amicizia virile leale sino alla morte.
Il tema di fondo anticipa quanto scritto un secolo più tardi dal Premio Nobel V.S. Naipul: per l’uomo l’utopia è la cosa peggiore. Siamo all’eclisse dei valori. Carlo ed Elisabetta cercano l’utopia ma finiscono nell’adulterio, tradendo rispettivamente il padre ed il marito. Con Filippo II e la Principessa Eboli (amante del primo ma vogliosa di portare Carlo sotto le lenzuola) intrecciano un complicato ménâge-à-quatre. Il potere politico si sgretola di fronte al Grande Inquisitore, a sua volta cieco ed incapace del perdono. Resta un solo valore: l’amicizia virile tra Don Rodrigo e l’”infante”, ma viene stroncata dai moschettieri del Grande Inquisitore. Le folle assistono alla morte dell’equilibrio etico su cui si fondano sia la vita delle coscienze e degli affetti sia il significato della politica; tentano una velleitaria ribellione.
Don Carlo è stato messo in scena più volte al Maggio Musicale Fiorentino, ora in serie difficoltà economiche. Questa non è una nuova produzione. Nasce a Bilbao, ed è stato visto già ad Oviedo, Siviglia e Tenerife. La regia di Giancarlo Del Monaco, le funzionali scene diCarlo Centola Vigna ed i costumi di Jesús Ruiz sono rigorosamente tradizionali e soprattutto possono ‘traslocare’ da un palcoscenico all’altro (anche di differenti dimensioni ) con relativa facilità. Hanno, tuttavia, un tono di maestosità.
Zubin Mehta non punta più (come fece nella lettura del 2013, sempre a Firenze, dell’edizione in cinque atti, in versione da concerto) sulla maestosità e della rappresentazione scenica e sulla violenza dei contrasti. Pone l’accento nel mostrare un Don Carlo intimista, in un’atmosfera di lirismo rassegnato che sposta l’accento alla verità intima dei personaggio. Un Don Carlo di ‘perdenti’.
Tra i solisti ha spiccato Giovanna Casolla, chiamata , all’ultimo momento, a sostituire Ekaterina Gubenova nel ruolo della Principessa Eboli . A 70 anni, la Casolla ha dimostrato di essere una grande professionista affrontando un ruolo di mezzo soprano. Il pubblico la ha giustamente omaggiata con ovazioni a scena aperta, al termine delle due sue principali arie. Il trionfo di Giovanna Casolla ha leggermente oscurato Julianna Di Giacomo (applaudita a scena aperta dopo Tu che la vanità nell’ultimo quadro dell’opera); il soprano americano ha interpretato con efficacia un’Elisabetta dolcissima e dolente.
Nel gruppo maschile, primeggiano i due bassi – Dmitry Beloseslkiy e Erik Halfvarson – nei ruoli, per loro molto rodati di Filippo II e del Grande Inquisitore, e soprattutto il trentanovenne baritono Massimo Cavalletti che rende il Marchese di Posa un personaggio generoso ma anche meditativo e eccelle nei duetti con Roberto Aronica (Don Carlo). E’ noto che in passato Alagna ha spesso rifiutato l’impervio ruolo dell’infante. La padroneggia con maestria sotto il profilo vocale (anche se il suo squillo si è appannato), ma scenicamente a 53 anni, ha perso presto la prestanza fisica di un tempo.