Claudia Lagona, in arte Levante, siciliana trapiantata a Torino da bambina, si potrebbe dire una musicista “arrivata”, qualunque significato abbia questa parola. Ha pubblicato tre dischi, ha suonato due volte al Primo maggio, ha scritto un libro, la invitano in televisione; tra i suoi progetti futuri, stando a quanto ha lei stessa dichiarato, ci sarebbero una mostra di fotografie, il lancio di una linea di abbigliamento, un film e il doppiaggio di un cartone animato.
È una persona creativa, così si definisce, e dunque è normale che abbia tutte queste cose in testa. Che le realizzi o meno, francamente non mi importa nulla. È una cantante, scrive e interpreta le sue canzoni, incide dischi e fa concerti. È una musicista. E io i musicisti li giudico dalla musica che fanno, punto. I progetti paralleli non mi interessano, a maggior ragione se, come probabilmente è nel suo caso, sono scaturiti dalla sua attività principale o meglio, se sono stati fatti oggetto di attenzione solo perché lei un nome, a differenza di altri, ce l’ha già. Io il suo libro non l’ho letto ma siamo sinceri: l’avessi presentato io, il dattiloscritto, me lo avrebbero anche solo considerato per dieci secondi?
Quindi, scusate la brutalità, ma a me, di tutte queste chiacchiere che si fanno su di lei, dall’aspetto fisico ai post su Instagram, interessa poco. Io l’ho conosciuta coi suoi dischi, continuo ad ascoltare i suoi dischi e ad andare a vedere i suoi concerti. Ed è di questo, oggi, che voglio parlare.
Levante, dicevamo, è arrivata. Ha pubblicato da poco il terzo disco, “Nel caos di stanze stupefacenti”, ha appena iniziato un tour che pare stia andando molto bene, il suo nome ha iniziato a circolare sempre più spesso, anche in ambiti dove, normalmente, si ascolta altro.
Merito di Carosello, senza dubbio, che in questi anni ha dimostrato di saperci fare, in fatto di lancio e gestione di talenti. Ma merito soprattutto suo, perché la ragazza è brava, anche se, come sempre avviene dalle nostre parti, quando qualcuno ha successo gli strali degli invidiosi sono molti di più delle felicitazioni.
Per cui, nei tre anni scarsi intercorsi dall’esplosione di “Alfonso”, è stato tutto un susseguirsi di apprezzamenti ma anche di polemiche, innescate da quelli che ormai comunemente si chiamano “hater”, secondo i quali la giovane siciliana rappresenterebbe tutto ciò che di approssimativo e artisticamente mediocre c’è nel cosiddetto mondo “Indie”.
È un problema tipicamente nostrano: in Italia abbiamo avuto Battisti, Baglioni, De André, Dalla, De Gregori e molti altri. Adesso pare che chiunque voglia provare a scrivere canzoni per proprio conto, debba per forza di cose essere giudicato all’altezza di questi nomi, da una giuria di soloni sicuramente competenti ma anche particolarmente fastidiosi.
Già, perché se è pur vero che nella nuova generazione di cantautori uscita negli ultimi dieci anni, c’è tanto di inoffensivo o addirittura da buttare via, è altrettanto vero che questa schiera di esperti che al grido di “era meglio prima” sta cassando tutto ciò che di interessante si sta vedendo nel nostro paese in ambito musicale, rischia anche di avere rotto le scatole.
Levante, nello specifico, va presa per quello che è. E va giudicata per le sue canzoni, non per la sua avvenenza o per la sua presenza su Instagram. Queste cose, ai tempi, le facevano “Cioè” o “Top Girl”, a maggior ragione dovrebbero evitarlo i giornali considerati “seri”.
Per cui alla domanda: “ma tutto questo successo è giustificato o no?” risponderei che in gran parte sì, è giustificato.
Claudia ha una voce splendida, potente ed espressiva, con un’estensione notevolissima e una gran forza sia sui bassi che sugli alti. Ha certamente il problema di volerlo mostrare a tutti i costi, anche quando non servirebbe ma sono scelte che, una volta superata la soglia dei trent’anni di età, potrebbe anche decidere di abbandonare.
La voce è il suo punto di forza indiscusso ma è anche in grado di scrivere canzoni. Scrive da sola, musica e testi, e ha dimostrato di possedere la materia piuttosto bene già a partire da “Alfonso” che aveva tutte le caratteristiche per divenire un tormentone (in effetti l’ha fatto, in un certo senso) così ben equilibrata tra un testo ironico e vivace e un ritornello impossibile da dimenticare.
Sul formato lungo del disco ha fatto cose altalenanti: molto efficace quando si alzano i ritmi e si battono i piedi, molto meno quando cerca di essere più riflessiva e, magari, anche di far scendere due lacrime.
Per quanto mi riguarda, “Manuale distruzione”, il suo lavoro d’esordio, rimane il migliore, ancora ammantato di sonorità pseudo acustiche e con un’urgenza nel raccontarsi che lo rendeva fortemente autentico, seppur acerbo in alcuni particolari.
Col successivo “Abbi cura di te”, al netto di alcune tracce davvero belle, si è assistito ad un certo atteggiamento ammiccante di voler piacere, una certa virata verso il Pop da classifica che personalmente non mi dispiace mai ma che in questo caso non ha forse sempre corrisposto nei risultati.
“Nel caos di stanze stupefacenti”, che è uscito da poco meno di un mese, è un disco gradevole, a tratti anche molto ben riuscito, ma che non è riuscito a far compiere quel salto di qualità e maturazione che ci si sarebbe aspettati da un’artista al terzo capitolo.
Un album che ancora una volta alterna episodi dall’altissimo potenziale (come sempre quelli più tirati e ballabili) ad altri scintillanti in superficie ma privi di una reale sostanza espressiva (quasi tutti quelli più lenti ed emozionali). Un album ancora più spostato verso il Pop, a detta della sua autrice più “internazionale” nel sound, a mio parere più smaccatamente sbilanciato nell’intento di accontentare tutti: ascoltatori navigati e ragazzini alle prime armi, alternativi dichiarati e fan di Fedez e J Ax (l’iniziale “1996 La stagione del rumore” contiene un’orrenda strofa rappata che sembra fatta apposta per acchiappare quanti l’hanno conosciuta per il featuring su “Assenzio”) e come sempre succede in queste occasioni, rischia di funzionare a metà.
Stiamo parlando dell’aspetto puramente artistico, ovviamente; da quello più smaccatamente commerciale, invece, l’operazione pare riuscita alla grande.
L’Alcatraz, la venue prescelta per quella che è di fatto la sesta data di questo tour è infatti sold out da qualche giorno. All’interno, atmosfera festosa e pubblico mediamente giovane ma anche piuttosto variegato per età e look.
“Le mie mille me”, “Non me ne frega niente” e “Le lacrime non macchiano”, la tripletta iniziale dello show, è da manuale e ci permette di capire già diverse cose. Innanzitutto che questa produzione è un affare piuttosto grosso: la scenografia in grande stile, con luci dedicate quasi per ogni canzone e l’utilizzo di visual posti su tre diversi schermi, a disegnare atmosfere e ambientazioni (non sempre ben riuscite purtroppo) per molti dei brani in scaletta, è senza dubbio un valore aggiunto e dice che ai piani alti ci credono molto.
In secondo luogo, Levante sul palco è straordinaria. Lo sapevamo già ma è bello vedere che è ancora così e che anzi, le cose sono addirittura migliorate. La voce esce nitida e potente, il controllo è notevole e dal vivo canta ancora meglio che in studio, evitando certe forzature (anche se il vezzo di urlare è una cosa che ha sempre) e complessivamente sfoderando una prestazione maiuscola.
Terzo, la resa sonora è stata purtroppo deludente. Qui bisogna solo capire se dare la colpa all’Alcatraz (molti sostengono che abbia un’acustica che fa pena, io ho sempre replicato che dipende dai fonici) o a delle precise scelte di arrangiamento. Io propenderei per la seconda. È indubbio che rispetto al tour precedente, tastiere e programmazioni varie abbiano assunto un ruolo maggiore. La batteria era triggerata fino all’eccesso, ultra effettata, e l’impatto generale, pur notevole come potenza, era particolarmente “plasticoso”, con le chitarre (una o due, a seconda se Claudia suonava o meno) praticamente non pervenute.
La voce, quella sì, in bella evidenza, al punto che qualcuno si è spinto a dire che sia stata adottata la scelta, tipicamente Pop, di appiattire tutte le dinamiche, per metterla in primo piano penalizzando così la possibile ricchezza degli arrangiamenti.
Non saprei rispondere (se non che non ho mai visto questo gran lavoro musicale nelle sue canzoni), però è vero che di autentico spirito live, in questo concerto, non se ne è visto molto.
Non è comunque una stroncatura: è stato un bello show, a volte sofferto, a volte divertente, sicuramente molto coinvolgente e parecchio partecipato da parte del pubblico.
La scaletta ha spaziato in lungo e in largo tra i tre dischi, privilegiando comprensibilmente l’ultimo, con brani d’impatto come “Di tua bontà”, “Io ti maledico” (la migliore in assoluto, nonostante un testo parecchio scontato) e “Gesù Cristo sono io”, già diventato un nuovo classico. Anche i pezzi più riflessivi come “Diamante” o “Io ero io” hanno fatto breccia tra i fan, mentre ha un po’ stupito l’assenza di “Pezzo di me”, realizzato assieme a Max Gazzé e proprio in questi giorni uscito come singolo. Peccato, perché avrebbe funzionato a meraviglia su questo palco.
In mezzo, i brani vecchi si sono incastrati alla perfezione, complice anche un repertorio che non ha mai subito grossi scossoni stilistici: episodi come “Cuori d’artificio”, “Sbadiglio”, “Memo” o la stessa “Alfonso” sono davvero di alto livello e hanno funzionato ancora una volta benissimo, accanto ai migliori estratti del disco precedente come “Ciao per sempre”, la già citata “Le lacrime non macchiano”, “Lasciami andare” o una “Contare fino a dieci” dal sapore quasi Western.
È un disco che proviene, come lei stessa ha detto, da un anno di “caos” che c’è stato nella sua vita. Non so cosa le sia successo (anche se ho sentito di una rottura sentimentale) e non mi interessa. Però si percepiva l’urgenza di essere lì, su quel palco, a donarsi totalmente al pubblico e a farsi avvolgere dai suoi applausi. Non desiderio di nutrire il proprio ego ma autentico bisogno di sentirsi amata, voluta. L’ho apprezzato, in un certo senso. Ha dato un respiro maggiore, un tocco di bellezza in più, ad un concerto forse un po’ troppo pensato per essere perfetto, inattaccabile.
Lo si è visto durante il breve intermezzo acustico, quando è rimasta dapprima da sola con la sua chitarra per una rara “La scatola blu” e una intensa, quasi rabbiosa “Non stai bene”, e successivamente raggiunta dal suo chitarrista per eseguire “Abbi cura di te” in versione realmente “unplugged”, senza microfoni, col pubblico che cantava sottovoce e lei che un po’ lo dirigeva, un po’ cantava lei stessa, il tutto con un filo evidente di commozione.
E come ultimissimo pezzo, al termine dei bis che, come da copione, hanno sfoderato i brani più attesi, ha scelto proprio di intonare “Caos (preludio)” che è il brevissimo intro con cui il disco si apre, e che prova a raccontare come si sentiva, al momento della sua composizione e forse un po’ anche adesso.
Quindi, per quanto mi riguarda, Claudia Lagona, in arte Levante, ha vinto. Non tutto mi piace, delle sue ultime cose, non tutto mi è piaciuto di questo suo nuovo spettacolo. Ma la gente è venuta e lei sul palco è una forza della natura. C’è molto di valido, in lei e nella sua proposta. Se le cose rimarranno queste, andando avanti si potrà solo migliorare.