La morte di Chris Cornell, come recentemente successo con David Bowie o Prince, ha provocato una reazione di massa che in molti non si sarebbero aspettati. Sarebbe da analizzare a fondo questo fenomeno. Se è vero che la scomparsa di ogni artista, sia uno scrittore che un pittore o anche un regista, ha sempre un impatto, questo resta la maggior parte confinato in circoli elitari. E’, per chi scrive, l’ennesima dimostrazione che nessuna forma di comunicazione come la musica rock ha inciso a livello globale negli ultimi 50 anni allo stesso modo su generazioni e generazioni, una dopo l’altra. E ancora continua. Perché succede questo, sarebbe motivo di altre approfondite analisi. 



Quando poi un musicista muore come è morto Chris Cornell, siamo davanti a qualcosa di così spiazzante che nonostante i tentativi di analisi, ci lascia con domande enormi e impossibili da rispondere.

Come la morte di Bowie, coincisa con il giorno di uscita del suo nuovo disco è sembrata un’azione di marketing o una performance di pop art calcolata al millesimo con genialità (ma in realtà non è stato così), anche quella di Cornell è stata una performance esibita davanti al mondo in modo così lucido e spontaneo che in realtà chi era presente a quell’ultimo concerto a Detroit non ha capito, tantomeno i suoi familiari.



Solo una persona aveva capito che qualcosa non andava quella sera e lo ha scritto il giorno dopo sul sito di USA Today, il giornalista Ashley Zlatopolsky: “Era chiaro che qualcosa non andava durante il concerto al Fox Theatre. Spesso vagava avanti e indietro per il palco, e nei suoi movimenti sembrava particolarmente debole. Dopo una o due canzoni, sembrava che la sua energia fosse uscita dal corpo e quello che restava era il guscio di un uomo che combatteva per portare a termine il suo lavoro (…). Non è stato un brutto concerto ma sembrava che Cornell non fosse presente con la testa: dimenticava le parole, a volte interi pezzi di canzone, lasciando che il pubblico cantasse le parti che lui scordava. Nessuno si è lamentato, i 5mila presenti sembravano più che felici (…). In certi momenti sembrava molto agitato. E’ uscito dal palco per diversi minuti prima di cantare Been Away Too Long, facendo ricominciare la band che ha continuato a suonare senza di lui. Pronunciò una frase che in quel momento sembrava innocua: “Mi dispiace per la prossima città in cui suoneremo” dopo aver detto che nessun pubblico può battere quello di Detroit. Adesso quella frase assume un significato profondamente doloroso“.



Il giorno dopo la morte di Chris, la moglie ha postato su twitter un lungo messaggio in cui dice che il marito, la sera dopo il concerto, parlando al telefono con lei aveva un tono di voce molto confuso (come dice il giornalista di Usa Today). Le disse di aver preso un Ativan (un ansiolitico, medicinale che si prescrive a chi soffre di disturbi depressivi)in più, forse addirittura due. Chi aveva consigliato Cornell di prendere proprio quel medicinale, dato che nella prescrizione si legge che deve essere tenuto lontano da chi “ha una lunga storia di abuso di stupefacenti o dipendenze varie” perché può indurre al suicidio, cioè uno come lui? Ma soprattutto, perché quella sera aveva deciso di se non triplicare la dose, almeno di duplicarla? Viene in mente il caso del cantautore Nick Drake, anche lui sofferente di disturbi depressivi, morto per abuso di medicinali di cui ancora oggi non si sa se ne prese troppi perché voleva disperatamente sentirsi meglio o per uccidersi. Cornell è morto impiccato, ma il gesto può essere stato indotto dallo stato mentale in cui la dose eccessiva lo aveva indotto.

Analizzando tutta la carriera discografica di quest’artista, i segni premonitori non mancano. Quella sera però furono così lucidi e impressionanti che con il senno di poi lasciano interdetti. Poche ore prima di togliersi la vita, Cornell aveva aggiornato la sua pagina Facebook pubblicando una canzone dei Soundgarden, “By Crooked Step” e scrivendo in didascalia una frase del testo: “I’m the shape of the hole inside your heart” (Sono la forma del solco dentro al tuo cuore). Nei giorni precedenti aveva scritto un tweet teneramente dedicato alla moglie in occasione della festa della mamma che adesso sembra un messaggio di addio. 

E alla fine del concerto, durante l’ultimo pezzo, aveva inserito un breve passaggio di un brano dei Led Zeppelin, In My Time of Dying, a sua volta ripreso da un antico gospel blues, che nella sua interezza dice: “Quando morirò, non voglio che nessuno pianga. Voglio solo che voi riportiate il mio corpo a casa. Così posso morire facilmente, vienimi incontro Gesù, vienimi incontro, se le mie ali dovessero cadere, ti prego fammene un paio nuove, San Pietro alle porte del Paradiso, mi faresti entrare? (…) non ho fatto mai nulla di male, sono stato giovane una volta sola (…) devo aver fatto qualcosa di buono, vedo volti sorridenti, so che ho lasciato delle tracce, oh Signore, liberami da tutto il male che ho fatto”. Solo una cover di uno dei suoi gruppi di riferimento, deve aver pensato il pubblico presente. Se fosse stato invece il suo messaggio di addio, la preghiera di chi ha deciso di andarsene? Certamente Chris Cornell aveva lasciato volti sorridenti, grazie alla sua musica, certamente si sentiva colpevole come succede a tutti i depressi per non essere “abbastanza buono”.

In una intervista di dieci anni fa, Cornell aveva detto al giornalista Claudio Todesco (il massimo conoscitore della scena musicale di Seattle, autore del bel libro “Grunge, il rock dalle strade di Seattle”): “Come riempio il mio, di vuoto? Non lo so e penso che questo sia il problema. È nella natura umana: forse non ci sarebbe stata la civiltà come la conosciamo se l’uomo non avesse sentito l’urgenza di riempire quel vuoto. L’uomo non fa altro che preoccuparsi costantemente per qualcosa. E non credo che la natura umana sia fatta per placare questa scontentezza perenne. La religione risolve questo conflitto creando un aldilà dove possiamo finalmente placare le nostre ansie, un paradiso dove il vuoto sarà infine riempito. Placandoci”. Pochi la ricordano, ma anni fa, all’interno di una compilation natalizia, il cantante aveva inciso l’Ave Maria di Schubert in una versione di una bellezza struggente.

Chris Cornell “era cresciuto alla periferia di Seattle in una famiglia piccolo-borghese. Lo descrivono, da bambino, come estroverso e al tempo stesso sfuggente” ha raccontato al sussidiario.net ancora Todesco. Era figlio di un irlandese cattolico. Una volta raccontò che “eravamo sei fratelli: troppi perché i nostri genitori riuscissero a starci dietro e ad assicurarsi che non ci mettessimo nei guai. Cominciai a usare droghe a 12 anni. Nei quartieri irlandesi ogni famiglia ha almeno cinque fratelli grandi che vivono in una tenda montata in giardino dove passano il tempo a bere e farsi canne. Restai pulito giusto un paio d’anni. Poi cominciai con l’alcol”. 

Per molti l’apparente destino comune di quattro amici che amavano suonare da ragazzi nei garage la musica più rumorosa possibile, ha significato l’appartenenza a una generazione maledetta, ma in realtà il discorso è molto più ampio, anche se le coincidenze non lasciano indifferenti a cominciare dalla città di appartenenza, Seattle, il luogo più piovoso e triste d’America.

Il primo fu Andy Wood, leader dei Mother Love Bone, compagno di stanza di Cornell, morto di overdose nel 1990, ancor prima che il grunge diventasse noto. Poi ovviamente Kurt Cobain, suicidatosi nel 1994 dopo lunga dipendenza da eroina che lui, diceva, prendeva per placare i dolori allo stomaco frutto di una malattia psicosomatica sviluppatasi con la separazione dei genitori. Quindi Layne Staley, cantante degli Alice in Chains, figlio di un padre alcolizzato, trovato morto di overdose nel 2002. Adesso Chris Cornell, anche lui suicida, dopo una depressione durata sin dall’adolescenza e curata con eroina e alcol, e adesso da farmaci.

Todesco ci aiuta a indagare in quel momento musicale che rimane come l’ultima grande rivoluzione del rock. A proposito del fatto che si dica spesso che i Soundgarden con il loro successo avessero permesso ai Nirvana di averne ancora di più, spiega: “Dipende da cosa si intende per successo. I Soundgarden furono fra i primissimi a incidere per Sub Pop. E influenzarono i Nirvana nello stile e nella scelta di incidere per Sub Pop. Sempre i Soundgarden furono fra i primi di quella scena locale, con i Mother Love Bone di Andy Wood, ad essere messi sotto contratto da una major. Aprirono una strada. Però poi, in realtà, il successo quello da milioni di copie arrivò prima per i Nirvana, con Nevermind, nel 1991-1992. L’album del 1991 dei Soundgarden, Badmotorfinger, andò molto bene, ma il vero boom lo fecero nel 1994 con Superunknown, l’album di Black Hole Sun”.

Cosa rimane oggi di quella scena dopo la morte di Cornell? “L’influenza di questi gruppi sul rock è andata via via scemando. Oggi la musica sembra andata da tutt’altra parte e del loro stile resta poco. Non è più rilevante. Detto questo, sono convinto che quelle band resteranno nella storia. Il rock di Seattle è stato uno degli ultimi, grandi fenomeni rock pre-digitali, un’epoca in cui la musica esercitava un’influenza profonda sull’identità delle persone e… dovevi indossare un paio di scarpe per andare a comprare un disco”. 

Todesco ha avuto modo di incontrare e intervistare Chris Cornell più volte: “Di lui mi restano due immagini contrastanti e per questo forse significative. Lo ricordo nel backstage dell’Alcatraz di Milano seduto per terra, in uno stretto corridoio, le braccia sulle ginocchia, lo sguardo perso nel vuoto. Mi fece una grande impressione. Era la star della serata e gli si doveva passare sopra per transitare e lui restava lì, immobile. E poi lo ricordo felice, comunicativo, intenso in altre interviste. In una, negli anni ’90, era così preso dal racconto da alzarsi dalla sedia”.

Quello che resta è il ritratto di una generazione distrutta non dalla voglia di sballo come normalmente si etichettano i musicisti rock, ma di una generazione che ha cercato disperatamente aiuto “Vieni come sei, vieni come vuoi ma vieni” cantava Kurt Cobain.

A pensarci bene, visto che la depressione colpisce centinaia di milioni di persone al mondo (la malattia più diffusa oggi) quel “black hole sun”, quel sole dal buco nero che cantava l’ex Soundgarden ci riguarda tutti. “Nella depressione c’è una fissità dello stato di dolore che non è influenzabile dalla volontà. Ciò che viene a mancare è proprio la volontà” scriveva Carlo Gadda ne “La cognizione del dolore”. La depressione è totalizzantee si traduce “in un generale rallentamento, sia fisico che cognitivo ed emotivo. In alcuni casi, non si è più nemmeno in grado di fare le cose banali, dall’andare al lavoro a farsi la doccia.

Tutto diventa incredibilmente impegnativo. Alzarsi dal letto e lavarsi i denti è paragonabile a un’escursione in montagna. Ogni azione si scompone nel cervello in tante micro azioni, tutte con un proprio peso specifico, tutte dispendiose di energia. E, soprattutto, tutte senza senso”.

Quante volte Chris Cornell si sarà sforzato di alzarsi da quel letto? Quante volte capita a noi? Non ci sono morali in questa storia, se non quella che la vita è un affare così grande e misterioso che ci supera da ogni parte. E che l’unico modo per affrontarla è ammettere umilmente di avere un gran “buco nero” da riempire. Se a un certo punto non ce la fai più, qualcuno ti darà un paio di ali nuove per continuare il tuo viaggio. La morte di Chris Cornell ricorda in modo impressionante quella dello scrittore David Foster Wallace, appartenente alla sua generazione, impiccatosi come lui e come lui sofferente per tutta la vita di depressione, ma come lui capace di regalare opere d’arte immense.

C’è una immaginetta del cantante che è girata (poco) sui social network, sotto la quale c’è un commento, probabilmente le parole più appropriate per chiudere questo capitolo, e per ringraziare chi ha reso le nostre vite migliori: “Per tutta quella gente che non capisce perché alcuni piangono la morte degli artisti, c’è bisogno di capire che questa gente è stata una spalla su cui piangere. Sono stati per noi la famiglia, gli amici, gli insegnanti e i modello. Molti di loro ci hanno insegnato quello che avevamo bisogno di sapere e cosa fare quando le cose diventavano difficili. Ci hanno aiutato a darci una mossa, ci hanno sbattuti giù dal letto. Ci hanno aiutati a vivere quando nessun altro aveva il tempo per farlo Gli artisti ci hanno ispirati in tantissimi modi e sono stati accanto a noi nei momenti della nostra crescita. Abbiamo costruito dei ricordi con loro così quando muoiono, una parte di noi muore con loro”.

La bellezza non si ottiene gratuitamente, c’è sempre un prezzo da pagare. E un buco da riempire.