Ce lo sta dicendo chiaro e tondo Dan Stuart, sul palco di Cantù, all’1 & 35 circa – il locale che Carlo Prandini ha trasformato in un’isola di buone energie – che se ci siamo persi il punk rock perché eravamo troppo giovani, è un peccato. E in effetti, quel gruppo di musicisti che, sotto il nome di Green On Red, aveva calcato le scene negli anni ottanta, era proprio da lì che pescava, buttando dentro la musica tutto il proprio desiderio di libertà. 



Qualche critico musicale, alle prese con la necessità di classificare ogni cosa, aveva battezzato come Paisley Underground una scena musicale che, oltre a Stuart e soci, vedeva nei Long Ryders, i Dream Syndicate, le Bangles e i Rain Parade, i rappresentanti di un nuovo fenomeno musicale. Ma erano stati quegli stessi musicisti a rigettare ogni tipo di etichetta, alla ricerca soltanto di una via di fuga esistenziale sotto forma di voce e di chitarre. 



Tra tutti, i Green On Red avevano mostrato di avere una marcia in più. Prima che ad altri venisse in mente di coniare termini come “alternative country” o “americana”, avevano già miscelato country e rock’n’roll, punk e psichedelia, dando alla luce una manciata di ottimi dischi – da Gravity Talks a The Killer Inside Me, passando per Gas Food Lodging e No Free Lunch – prima che il genio e la follia, oltre che gli abusi alcoolici di Stuart, rendessero impossibile la convivenza con la forte personalità di gente come Chuck Prophet e Chris Cacavas. Così la favola dei Green On Red era svanita rapidamente e ciascuno dei membri della band aveva continuato a percorrere la propria strada. 



Dan Stuart era stato il più sfortunato di tutti. Una collaborazione con Al Perry – Retronuevo –  ed un altro disco solista – Can O’ Worms – lungo gli anni novanta, poi l’uscita dalle scene. Dan che si sposa e se ne va via da Tucson, Dan che vive a Madrid e fa l’assicuratore dopo aver appeso la chitarra al chiodo. Dan, il cui matrimonio va in fumo e che non vive più in Spagna. Dan, che non si sa più dove sia. 

Poi, come d’incanto, nel corso del 2006, ricompaiono i Green On Red. Sul palco dell’Astoria, a Londra, per rifare quel concerto che, esattamente vent’anni prima, era stato cancellato per la dichiarata impossibilità di Stuart di reggere la scena. “This is my family on stage”, aveva detto quel giorno dal microfono, presentando di nuovo i vecchi amici. Come a dire: questa è la mia famiglia, la musica è la nostra casa e, in fondo, non ce ne eravamo mai andati. Una reunion dei Green On Red? Troppo bello per essere vero. O forse no, visto che di rado le reunion funzionano, perché la magia del passato non la puoi mai ricreare a tavolino.

Ma riunione, per disgrazia o per fortuna, non era stata. I vecchi amici si erano salutati e di lì a poco anche Stuart aveva pensato bene di far perdere le proprie tracce di nuovo. Poi, un po’ alla volta, qualcosa era timidamente rinato. Merito di alcuni amici, certamente. Di Jack Waterson e JD Foster, di Antonio Gramentieri e dei suoi Sacri Cuori, di Thomas Heyman e di altri ancora. E merito della vita, fatta di cerchi concentrici, che ti rimette in pista quando meno te l’aspetti. Così Dan indossa i panni di Marlowe Billings, un uomo che cura gli eccessi alcolici, raccoglie nuovamente le idee e si diverte persino a raccontare di fughe da qualche clinica psichiatrica di New York, per trovare, infine, prima in quel di Oaxaca, poi a Città del Messico, un luogo dove il cuore possa finalmente riposare. E, grazie alla collaborazione con i Sacri Cuori di Gramentieri e con un gruppo di ragazzacci messicani dal piglio hard rock che porta il nome di Twin Tones, finisce per far uscire due ottimi dischi – The Deliverance Of Marlowe Billings e Marlowe’s Revenge, a suggellare il vero ritorno di Dan Stuart, in questa seconda decade degli anni duemila, con una ormai stabile presenza sui palcoscenici di Stati Uniti ed Europa, ed un passaggio, anche quest’anno, per alcune date in Italia, tra cui quella di Cantù.

Così, per chi scrive, che non aveva mai visto Stuart dal vivo, non risulta facile gestire mille pensieri ed emozioni, liberi di scorrere al ricordo di dischi ascoltati da giovane più di trent’anni fa. Tempi lontani da internet, nei quali il fascino della musica poteva cominciare anche semplicemente da una copertina. 

Come quella di The Killer Inside Me, col suo tramonto rosso fuoco, riflesso sullo specchietto di un’auto, davanti all’orizzonte blu della notte che si è già fatta strada. Le canzoni si scoprivano poco a poco, uscivano misteriosamente da quei solchi e la voce di Dan, ora struggente, altre volte contorta e urlata, come le smorfie di un viso intravisto al massimo in una foto, cantava di vite alla deriva, storie di perdita e di fallimenti, di un’America il cui sogno si era inesorabilmente infranto in fondo al rettilineo di un deserto. E adesso? Come sarà Dan Stuart? Cosa avrà ancora da dire, con la sua voce, cinquant’anni passati da un pezzo per lui me come per me e per tanta gente venuta fino a qui per ascoltarlo? Sono i pensieri che mi assalgono fin dai primi istanti, appena entrato nel locale di Cantù, mentre vedo Dan aggirarsi tra gli strumenti sul palco, pronto per il soundcheck quasi fosse l’esordiente di turno di una serata qualunque.

E certo che non si può scrivere la recensione di un concerto in queste condizioni, pretendere di essere attenti ed obiettivi osservatori, quando dietro c’è un’affezione così. Davanti ad un artista che hai amato ed ascoltato per anni e che ora appare quasi timido e indifeso. Non resta che accomodarsi in un angolo ed incamminarsi poco a poco sulla strada che egli avrà deciso di tracciare, uno show, come dirà, half bitter and half sweet, metà dolce e metà amaro, come, in fondo, è sempre stata tutta la sua vita. 

Ad accompagnarlo, questa sera, c’è il fido Antonio Gramentieri, con la sua Telecaster capace di evocare con la stessa efficacia paesaggi desertici ai confini messicani, così come cantine buie e grondanti di fumoso rock’n’roll. Con lui la batteria di Diego Sapignoli, definito dallo stesso Gramentieri come “due batteristi e mezzo in uno” ed il sax e il basso sintetizzatore di Francesco Valtieri, con l’aggiunta, nella parte finale dello show, del washboard di Caterino Riccardi, alias Andrea Scarso, simpaticissimo valore aggiunto.

Si parte con Home After Dark, tratta da Can O’ Worms, con quelle liriche che sembrano già una dichiarazione d’intenti: “Sentiti libero di bruciare la mia anima. Affonda il coltello nel profondo, non sono altro che carne ed ossa”. Dan è quello di sempre, con la sua scrittura noir, colma di sarcasmo e di ironia, che ben si sposa alle smorfie che accompagnano anche questa sera ogni canzone, in infinite sfumature del viso. Dan che appare loquace, ora scherzoso, ora improvvisamente serio, come quando, introducendo What Are You Laughing About?, canzone dal forte contenuto sociale, ci dice che ha imparato a ridisegnare la cartina del mondo, guardando quel che sempre più accade lungo l’asse che da sud porta verso nord. Gringo Go Home è un altro di quegli assalti sotto forma di pugno punk rock e in effetti è l’energia ciò che contraddistingue la maggior parte dello show. I passaggi tenui, le ballate, ci sono ancora: è il caso di Zipolite e di Last Blue Day, ancora tratte da Marlowe’s Revenge, o della splendida That’s How Every Empire Falls?, tributo a John Prine. Ma già il secondo brano della serata, Elena, e tutte le canzoni tirate fuori dal catalogo dei Green On Red (ce ne saranno parecchie:  Gold In The Graveyeard, Gravity Talks, Old Chief, Keith Can’t Read, Zombie For Love, Ghost Hand, Little Things In Life) si coniugano bene con la potenza erogata dagli amplificatori. Da ultimo c’è la sorpresa di una bella cover di Suspicious Mind, cantata da tutti in coro, perché, come dice il mio amico Gigi, che siede accanto a me, “il re è sempre il re”, e Name Hog, ancora dall’ultimo disco, che Dan definisce come una delle canzoni più stupide che abbia mai scritto e che ama suonare proprio per questo motivo, ma che in realtà è un brano di denuncia dell’attuale industria discografica.

Quasi due ore di concerto ed un Dan Stuart che, come mi confida Carlo Prandini, sembra finalmente più sereno. Lo si è capito a più riprese, dalla voce e personalità che possiede ancora, dal modo in cui ha saputo dialogare con gli spettatori, dal suo scherzare con i musicisti, ai quali, a metà dello show, dopo un intervallo in cui Gramentieri ha modo di suonare un paio di suoi brani, arriva persino ad offrire birra e sambuca, ritornando dal bar con un vassoio in mano.

Scrive ancora Gramentieri che, nel novero degli amici che hanno aiutato Stuart in questi anni, “ognuno ha fatto la sua parte, perché davanti c’era uno vero” e che “tutto quello che Dan mette sul piatto ogni volta è esattamente quello da cui certa musica sta fuggendo da anni, ovvero un senso autentico di pericolo, di istintualità, di viscere che prendono il controllo del cervello, della dolcezza consolatoria di una bella melodia mai compiaciuta, dello stare sempre di fronte al pubblico e mai dietro  a baciare le terga, di un equilibrio che ti chiede di esserne parte, giacché è sempre sul punto di dissolversi”. Stuart, insomma, è tornato, e sembra avere ancora qualcosa da dire, credendo in quei versi di una Time Ain’t Nothing, dei Green On Red, scritti da giovane, ma che sembrano fatti apposta per i tempi attuali: “Time ain’t nothing / il tempo non è nulla / if you’re young in heart / se sei giovane nel cuore / and your soul still burns / e la tua anima brucia ancora”. L’altra sera, a Cantù, di anime in fiamme ne abbiamo viste parecchie, sia sul palco che sedute ai tavolini di fronte. E, al di là di un buon concerto, forse è la cosa più bella che rimane. Quella, alla fine,  da portare via con sé. Sulla strada che, ancora una volta, porta tutti verso casa.