Questo è l’anno di ‘Lulu’. Una produzione di grande livello dell’opera di Alban Berg (1885-1935), una delle più importanti opere del Novecento, è arrivata al Teatro dell’Opera di Roma il 19 maggio; è coproduzione di lusso con il Metropolitan di New York, l’English National Opera di Londra e De National Opera di Amsterdam. Dirige Aléjo Perez.Regia, scene, costumi e luci sono di William Kentrige e Luc de Wit. A Salisburgo verranno messi in scena, nell’ambito del festival estivo, i due drammi di Franck Wedekind da cui l’opera è tratta, A fine agosto, al Festival delle Nazioni a Città di Castello si vedrà il film muto di Pabst con musica composta per l’occasione da Daniele Furlati, un musicista che ha molto lavorato sulla relazione tra musica e cinema



Per il pubblico romano l’opera di Berg è una novità. In passato, si era vista ed ascoltata nella stagione 1967-1968. Sino ad allora ragioni di  bigotteria la avevano tenuta lontana dal palcoscenico della capitale. E  raramente rappresentata nel nostro Paese (se ne ricorda un’edizione in traduzione ritmica italiana di Fedele D’Amico – dirigeva Bartoletti – a Firenze nel lontano 1985, una più recente a Palermo, nonché alcune rappresentazioni nel 2010 alla Scala da ove mancava da oltre 30 anni), anche a ragione dello sforzo produttivo che comporta (una ventina di solisti, alcuni in più ruoli e della durata (circa quattro ore di spettacolo intervalli inclusi).



Come sostiene correttamente Gioacchino Lanza Tomasi in un suo saggio ormai fuori catalogo, ‘Lulu’ è un’“opera sinfonica” che si svolge su due piani d’azione: quello dodecafonico-seriale e quello del recupero di forme strumentali modernizzate della tradizione classica. Si articola su una serie di base (si bemolle, re, mi bemolle, do, fa, mi, fa diesis, le, sol diesis, do diesis, si) dalle quali Berg fa deriva altre forme che vengono associate ai singoli personaggi. 

Su queste forme lavorò Friedrich Cerha per orchestrare il terzo atto, lasciato incompleto dalla morte di Berg e, per la prima volta, eseguito, nel 1980, in una stupenda produzione all’Opéra di Parigi (regia di Chéreau, direzione musicale di Boulez) di cui purtroppo esiste una mediocre registrazione discografica. 



Al sinfonismo, derivazione wagneriana e del tutto assente nell’opera precedente di Berg, “Wozzeck”, si aggiunge un ritorno al canto operistico nel senso pieno del termine, specialmente nei ruoli della protagonista e di Alwa, dove soprano drammatico di coloratura e tenore lirico spinto sono una reminiscenza del gusto del piacere e del peccato (si pensi alla vocalità di Monteverdi e Cavalli). Nella stessa chiave occorre interpretare l’uso dell’”arioso”, della “cavatina”, del “rondò”, del “canone”, dell’”intelaiatura a gabbia” per ensemble a più voci che si fermano alla soglia del “concertato”.

“Lulu” è una partitura senza possibili confronti che riscatta i due drammi di Wedekind d’inizio del Novecento da cui è tratta. La “dissoluzione” di Lulu è stato il tema di fondo di una produzione del Metropolitan che lanciata quasi in parallelo con quella Chéreau-Boulez è rimasta in cartellone per diversi anni. Chéreau enfatizzava l’ambiguità esteriore e la “verità interiore” della protagonista (i due “Lieder von Lulu” dove la protagonista dice in modo frammentario ciò che pensa su sé stessa). Nell’edizione fiorentina di 25 anni fa, Squarzina vedeva la protagonista come una grande reagente sociale, una cartina di tornasole grazie a cui si rivela, in termini marxisti, la verità nascosta.

Nella complessa trama, che spazia tra Germania, Francia e Gran Bretagna degli anni Trenta, Lulu, pur restando interiormente innocente, è una divoratrice di uomini (e pure di donne) e anche assassina. Rispecchia una società, quella del Vecchio Continente, al collasso finanziario, politico e morale. Nel contesto di questo collasso non può che muovere i primi passi in un circo (dove è una starlette), ascendere ai piani alti della società e finire, dopo varie peripezie, nelle mani di Jack lo squartatore.
La messa in scena che il 19 maggio arriva all’Opera di Roma per sei repliche è una coproduzione di lusso con il Metropolitan di New York, l’English National Opera di Londra e De National Opera di Amsterdam. Dirige Aléjo Perez.Regia, scene, costumi e luci sono di William Kentrige e Luc de Wit.

Andiamo allo spettacolo. La sera della prima (19 maggio) il tenore Thomas Piffka si è ammalato e non ha potuto cantare il ruolo di Alwa; il teatro ha risolto il problema brillantemente con il tenore Charles Workman in buca e Luc de Wit (che oltre che regista è anche attore).  L’impianto scenico di William Kentrige si ispira alla pittura dell’espressionismo tedesco dell’inizio del secolo scorso; i movimenti delle proiezioni sono affascinanti e tengono viva l’attenzione. Ottima la recitazione, frutto in gran misura del lavoro di Luc de Wit. Il cast è di altissimo livello.

Agneta Eichenholz è la protagonista, un ruolo impervio che richiede un registro molto ampio e la capacità di ascendere ad acuti molto elevati e di tenerli a lungo; dal 2009 è una ‘Lulu’ di riferimento sulla scena internazionale. Charles Workman (chiamato all’ultimo momento) ha cantato il ruolo di Alwa con ardore e perizia. Nella numerose altre parti, abbiamo ritrovato voci molto note (Jennifer Larmore nel ruolo della Contessa Geschwitz, Willard White in quello del padre di Lulu Shigolch) che voci poco presenti in Italia ma di grandissimo livello (come Brenden Gunnell nel doppio ruolo del Dr. Schön e di Jack lo Squartatore).

Alla prima, a teatro pieno, era presente quasi tutta la stampa musicale italiana. Spettacolo che fa onore al Teatro dell’Opera di Roma.