Peter Grimes è un capolavoro assoluto del teatro in musica moderno, Tratto da una novella inglese del tardo Settecento-inizio Ottocento, con un libretto di Montagu Slater, La sua prima rappresentazione fu una rivoluzione che nel 1945 ha inciso profondamente sul teatro in musica della seconda metà del Novecento.
La vicenda è nota. All’inizio dell’Ottocento in un piccolo gretto e pettegolo (e sporcaccione) borgo marinaro del Suffolk, il pescatore Peter Grimes è un “diverso” (Benjamin Britten, ricordiamolo, era omosessuale, religioso osservante e obiettore di coscienza durante la seconda guerra mondiale). Il suo mozzo muore in mare. Viene assolto dall’accusa di averlo seviziato ed ucciso, ma nel villaggio lo si considera pervertito e sadico. Soltanto la maestra (una vedova) gli dà fiducia e il pescatore spera di avere un futuro con lei.
Avviene, però, un secondo incidente: un altro mozzo muore in circostanze difficili da spiegare. A Peter non resta che mettersi sulla propria barca e partire per sempre. Suicidandosi in mare mentre nel borgo torna la calma perbenista. Questa scarna vicenda di solitudine e incomprensione è arricchita non solo da un testo stringato ed efficace ma da una partitura ricchissima: sei “interludi marini” separano le varie scene e la vocalità alterna declamato con ariosi di grande lirismo, nonché concertati di spessore (sia a quattro voci femminili sia di tutta la compagnia)
Peter Grimes impose Britten all’attenzione mondiale. Nel 1945 “Grimes” era rivolto al futuro: sviscerava temi nuovi (solitudine, ambiguità sessuale) con soluzioni musicali nuove proprio perché eclettiche ed in cui per la prima volta dai tempi di Purcell (ossia dal Seicento) sfruttava tutta la musicalità della lingua inglese. C’è senza dubbio una ricerca volta a snellire l’organico ma lo si sfoltisce soltanto rispetto a quello tradizionale dell’opera lirica. In “Grimes” non c’è happy ending: il protagonista (innocente dei crimini di cui è accusato) viene indotto al suicidio in mare mentre il borgo torna tranquillo (ora che il “diverso” non c’è più) alle sue occupazioni di sempre. Non manca, però, un velo di pietà cristiana nei confronti del “diverso”.
Nell’edizione originale, l’opera ha un organico orchestrale contenuto e non richiede che un piccolo coro ed una quindicina di solisti, in gran misura in ruoli secondari per dare vita al cicaleccio del borgo marinaro del Suffolk, incapace (tranne la maestra di scuola Ellen) di comprendere il dramma dell’esclusione sociale progressiva del protagonista.
Ebbe – come si è detto – la ‘prima’ al Sadler’s Wells poiché ritenuto più simile a Porgy and Bess di George Gershwin che all’opera in senso stretto. Dopo l’esecuzione, venne salutata come il segno del riscatto del teatro musicale inglese e, nel giro, di pochi anni rappresentata in tutto il mondo. Il suo stile musicale eclettico non rifiuta mai la scrittura tonale ed è accattivante anche per chi non ha dimestichezza con le convenzioni della musica del Novecento: pur continuando nella grande tradizione britannica iniziata con Purcell, fa propria (nel teatro in musica) la tecnica di Berg di adottare la forma di un tema su cui costruire ciascuna scena inserendo molteplici variazioni, e intercalando le varie scene con intermezzi indipendenti che servano da elementi di unificazione musicale e drammatica. Altro aspetto fondante è la capacità di ottenere il massimo colore e calore orchestrale con il minimo di organico.
E’ doveroso dire che col passare degli anni organico e coro sono stati ampliati dallo stesso Britten man mano che il dramma in musica diventava ‘popolare’ in teatri di grandi dimensioni. A riguardo, interessante confrontare la registrazione Decca del 1958 con Britten sul podio e quella EMI del 1992 con Bernard Haitikin, ambedue con i complessi della Royal Opera House al Covent Garden: organico orchestrale e corale sono molto differenti; la registrazione del 1958 ha un’impostazione lirica mentre quella del 1992 ne ha una epica. Ho avuto la fortuna di vederlo tre volte in scena in Italia almeno quattro negli Stati Uniti o a Londra.
Lo spettacolo visto ed ascoltato al Teatro Comunale di Bologna non è secondo a nessuna di queste edizioni. Non un nuovo allestimento ma una ripresa di uno sforzo comune dei Teatri di Modena, Ferrara e Ravenna che lo realizzarono circa dodici anni fa. E’ una riprova di quanto sostenuto più volte su questa testata: nei così detti ‘teatri di tradizione’, spesso in città d’arte che si coalizzano per montare un’opera lirica, e che vivono di pochi contributi del Fus (Fondo unico per lo spettacolo) e di apporti da imprese ed individui locali, c’è spesso più innovazione che nelle dodici fondazioni liriche nazionali.
L’allestimento scenico (essenziale, marino, anzi salmastro), i costumi dal taglio Anni Cinquanta e dai colori sfumati e l’ottima recitazione (difficile credere che Cesare Lievi sia la stessa persona che ha firmato il deludente Don Carlo visto ed ascoltato questa stagione a Parma ed a Genova) rendono emozionante e commovente la tragedia della solitudine centrale a Peter Grimes; un pescatore sfortunato (e desideroso solo d’acquisire il rango finanziario per sposare la maestrina del villaggio) si scontra contro un borgo ipocrita, bigotto e sporcaccione. Un borgo che riacquista “la serenità” dei suoi peccati e peccatucci solo dopo averlo portato al suicidio.
Apporto chiave la concertazione di Juraj Valcuha. Negli interludi fa sentire il cupo mare del Suffolk, la schiuma delle onde che si scontrano sulla scogliera e i raggi di luce che fanno sperare in un tempo, ed in un mondo migliore. Nella parti più squisitamente sceniche accentua quella polifonia di Britten che sei anni più tardi esploderà in Billy Budd. Valcuha mette in risalto, meglio di Ozawa e Ticciati, la tenerezza di una tragedia per molti aspetti molto cruda in un mondo apparentemente tranquillo e perbenista ma intrinsecamente feroce; ad esempio Juraj Valcuha infonde di tenerezza anche il duetto tra Ellen (la maestrina) e Auntie (la tenutaria del bordello del borgo) e soprattutto il grande arioso di Grimes – “Now the Great Bear”.
Ottimo tutto il cast vocale. Eccellono Ian Storey, mantiene lo squillo che aveva in Tristan und Isolde e Jenufa alla Scala nel 2007. Accanto a lui Charlotte-Anne Shipley e Mark S. Doss sono una Ellen Orford ed un Captain Balstrode i soli che avvertano il dramma che si sta dipanando.