E’ inutile cercare sul palco la fiera combattente punk dalla t-shirt stracciata che sputava per terra e proclamava “Outside of society, they’re waitin’ for me. Outside of society, that’s where I want to be”. Ma è anche inutile cercare l’altrettanto fiera poetessa del rock che strapazzava la sua chitarra alla fine di Gloria strappando una a una le corde dello strumento perché più in là di così non si poteva andare in quell’estremo sacrifico rock che sono stati i concerti dalla metà degli anni novanta fino a poco tempo fa, quando decise di tornare a esibirsi dopo la morte del marito.



Oggi Patti Smith, 70 anni appena compiuti, appare fragilmente delicata, splendente di un’aurea, come chi vive una trasfigurazione in atto. Guardandola da vicino, mentre lei stringe con delicatezza la mano dell’interlocutore aprendosi in un sorriso radioso, colmo di gratitudine anche se non sa chi sei, co queli lungi capelli di un bianco immacolato, lo si vede chiaramente. Fuori della società, sì, ma oggi Patti Smith potrebbe essere già fuori di questo mondo, in una dimensione trascendentale in cui solo certi santi e certi eremiti dell’epoca antica potevano trovarsi. Chi ha letto lo splendido libro “M Train” capirà queste parole. E non serve certo una laurea, anche se ben accetta, per dare più valenza a questo personaggio unico e straordinario, così come non servono i premi Nobel per dirci che queste persone hanno cambiato in meglio il mondo.



Sul placo, accompagnata dalla Smith Family e cioè il figlio Jackson, quello a cui dedicò la canzone omonima, chitarrista davvero sorprendente per capacità e gusto musicale e la figlia Jesse, tanto tenera quanto inutile al pianoforte e alle tastiere, incarna una ennesima versione della sua proposta musicale. Di veterani c’è il solito onnipresente bassista Tony Sheehan più un bravo ed essenziale batterista.

E’ il Grateful Tour, il tour della riconoscenza, e Patti Smith dirà quanto è riconoscente alla vita, lei donna dei dolori, prima di presentare l’omonima canzone. Lei ha saputo trasformare quello che normlamente definiamo oltraggio alla vita, la morte, in qualcosa che invece la vita la sublima e la rende. Come? Con serena accettazione.



L’inizio dello show è dimesso e intimo, quasi come osservarla da sola a casa sua che canta come se pregasse. Wing è il primo brano, seguito da una Ghost Dance che nessuno si aspettava, che termina con il ben noto ritornello “we shall live again”, noi risorgeremo, profetiche parole scritte quando non si immaginava l’ondata di lutti che l’avrebbe colpita e che oggi risuonano come invocazione ai suoi (e ai nostri) morti. Redondo Beach è uno scherzetto, poco incisiva come resa, mentre un altro pezzo tratto dall’esordio di Horses (Dancing Barefoot) alza il tiro. La voce c’è tutta, come e meglio del passato e vale ancora l’antico motto degli anni 70: “she is benedection”. Anzi di più oggi, perché Patti Smith è una autentica benedizione che fa bene alle nostre anime sporche e le lava dal peccato. Lei si muove con delicatezza, fa qualche passo di danza, agita i pugni o la mano aperta nelle sue classiche pose, a tratti sembra quasi una bambina che si muove con gioiosa innocenza. 

Dopo una commovente My Blakean Year, la cover di Prince, When Doves Cry, mentre il palco si colora di luci porpora, è l’autentica sorpresa della serata, un pezzo che va in crescendo in moto tumultuoso fino all’implorazione della pace con Patti Smith più declamatoria che mai, seguita all’unisono dai musicisti: “no war”, Lù dove le colombe vanno a piangere, sui corpo straziati di Siria, Nigeria, Iraq.

A Hard Rain’s A-Gonna Fall, cantata con il foglietto del testo in mano per evitare di fare come a Stoccolma, lascia rapiti ed estasiati dal potere di una voce che non ha eguali e che dagli abissi dell’inferno nucleare porta in alto alle vette di un desiderio infinito. Il finale è per una Pissing in a River che lascia storditi dalla potenza declamatoria, dall’incredibile lungo assolo di Jackson, e si respira tutta intera l’aria fremente e incalzante dei giorni del CBGB’s. Devastante Non possono mancare una Because the Night, dedicata ai fan italiani che l’hanno sempre supportata, ma un po’ carente senza l’apporto di Lenny Kaye e la solita fragorosa People Have the Power, come sempre cantata con tale urgenza che davvero per qui pochi minuti che dura sembra che sì, la gente possa davvero cambiare il mondo.

Un’ora e un quarto precise. Poco, ma non importa. Siamo dei privilegiati a vedere questa donna ancora sul palco (che mostra orgogliosamente sotto la giacca la t-shirt dell’Università di Parma), muoversi con tale grazia e tale carisma che dimentichiamo gli anni 70 o 90 o Duemila. Lei è in un tempo fuori del tempo dove ci sta già aspettando, perché, come  dice a un certo punto: “the future is now”. Grazia, riconoscenza, bellezza: questa è oggi Patti Smith, e niente di più le chiediamo. Anzi. Siamo “grateful” anche noi.