Si beccò l’etichetta di nuovo Dylan insieme al suo amico Bruce Springsteen. Il secondo si prese tutto il successo che mancò al primo, ma, come disse una volta Elliott Murphy, “se avessi avuto il successo di Bruce probabilmente sarei morto, ma se lui avesse avuto il mio insuccesso forse sarebbe morto lui”.
Il problema è che tutti e due gli allora giovani esordienti (era il 1972) in realtà di Dylan avevano ben poco, ma con la scomparsa dalle scene del vero Dylan, le case discografiche non vedevano l’ora di piazzare il colpo e riempirsi le tasche. Murphy ad esempio assomigliava molto di più, nella voce quasi identica e nelle sonorità alla Velvet Underground e al nascente glam, a David Bowie che a Dylan, ma l’inglese allora non era ancora una star mondiale da lucrarci sopra.
45 anni dopo l’americano a Parigi dove vive da molti anni, continua a macinare musica e concerti: “Prodigal Son”il nuovo disco pubblicato dall’italiana Route 61 Music, è il suo migliore dai tempi di “Selling the Gold” che a sua volta entrava nella top ten dei suoi dischi migliori di sempre.
Spiega Murphy che il titolo del disco non ha a che fare con il talentuosoo figlio Gaspard che ormai da anni produce e arrangia i dischi del padre, ma che si ispira alla celebre storia evangelica del figliol prodigo, in quanto le canzoni qui contenute, erano state scritte o abbozzate da tempo e finalmente hanno trovato la strada di casa, proprio come il figliol prodigo.
E’ uno de suoi dischi musicalmente più ricercati, pur cominciando con una doppietta classica delle sue, due rock blues tirati e intensi, Chelsea Boots e Alone in My Chair, conditi come sempre dagli ottimi interventi del bravo Olivier Durand alla chitarra e l’armonica come ai vecchi tempi dello stesso Elliott.
E’ dal terzo brano però che il disco mostra cosa teneva in serbo: Hey Little Sister è una ballata velvettiana, scura e intensa con violoncello e violino mentre Let Me In è uno dei gioielli del disco: voce, pianoforte e un coro gospel, qualcosa di inedito nel repertorio del cantautore, dove l’intensità si tocca con mano. Come accadrà in seguito, Murphy sembra voler immergersi nelle atmosfere soul care agli studi Muscle Shoals e a quel mix vincente che negli anni 70 produsse alcuna della musica più bella, tra sentimento black e canzone d’autore, forse andando con la memoria alle recenti scomparse di due leoni di quel tempo lì, Joe Cocker e Leon Russell. In questo senso la straordinaria Wit’s End, con un crescendo corale impetuoso, drammatico e liberatorio, si segnala come il pezzo più ricco di fascino della raccolta.
Stesso senso di struggimento anche nell’altra ballata gospel Karen Where Are You Going sostenuta dal pianoforte questa volta elettrico, con ancora emozionanti aperture corali e un Wurlitzer decisamente vintage intrisa di sogni e sconfitte anni 70. Il finale del disco è scoppiettante: Absalom, Davy & Jackie O, che pesca profondamente tra Leonard Cohen e Bob Dylan, è lunga quasi dodici minuti (“Ho provato a scrivere una canzone che si può ascoltare come si potrebbe guardare un film”). Cavalcata folk tra corde di acciaio di chitarre, mandolini e anche violino, sorta di Lily, Rosemary and the Jack of Hearts, gode anche questo brano del sostegno corale di voci black, dando al pezzo un alone di epicità e facendone già un classico del songbook del cantautore di Coney Island.
Elliott Murphy al suo meglio: testimonianza di un artista unico che lascerà dietro di sé una delle più belle eredità della storia del rock.