Quando un musicista come Roger Waters torna ad incidere un disco dopo 25anni è obbligatorio mettersi all’ascolto con un po’ di autentica concentrazione devozionale. Come se uscisse un inedito di Pasolini. Oppure un’opera smarrita di Andrey Tarkovskij o Stanley Kubrick.

Per il 73enne musicista britannico leader ed autentica anima dei Pink Floyd, il silenzio creativo è durato davvero parecchio. In pratica l’ultima prova “rock” di uno dei musicisti più significativi della storia del rock e della cultura ad esso conseguente e/o legata, Amused To Death, era una fotografia scattata nel 1992 di un epoca malsana, ricca di superficialità televisiva e povera di autenticità umana. Quello che è arrivato dopo quella fase artistica, Cà Irà, è stato un disincantato atto d’accusa (sotto forma di opera sinfonica) degli sfracelli che possono essere combinati in nome di ideali teoricamente apprezzabili, come quello della Rivoluzione Francese, “con una ghigliottina come simbolo di libertà”. Poi, da allora, per lui solo concerti, tour, celebrazioni.



Ed oggi Waters ritorna, a 50 anni dall’esordio con Syd Barret (The Piper at the Gates of Dawn) e a 40anni da Animals, opus visionario e delirante sul declino dell’Occidente. Il leader dei Pink Floyd ha deciso di rimettere le sue idee su disco, ben sapendo che non sono idee qualsiasi, ma che vengono dai labirinti cerebrali di uno che ha definito un discorso musicale di inarrivabile profondità, follia e suggestione, raccontando come nessuno le ombre disturbate di una contemporaneità in cui la persona non sa più trovare una propria faccia e una propria posizione nel mondo, nelle relazioni, negli affetti, nell’uso del tempo, dello spazio, del denaro e dei propri sogni. Ed è un ritorno importante.



Meglio dichiararlo subito: il nuovo album di Roger Waters, Is This the Life We Really Want?, è un disco da sentire e risentire. Un disco emozionante con alcune canzoni (Smell the Roses, Deja Vu, Waiting for Her, Part of Me Die) che possono far parte di una qualsiasi grande epoca precedente della produzione della sua (ormai) ex-band. Con citazioni d’atmosfera, come in Smell the Roses, addirittura ingombranti e furbissime nelle reminiscenze che richiamano a Dark Side of the Moon.

Il nuovo disco può piacere ai pink floydiani di tutto il mondo uniti, qualcosa che riprende le fila interrotte del periodo AnimalsFinal Cut. Volendo banalizzare il discorso potremmo dire che ci sono le ballate, i rumori, le voci registrate e in loop sovrapposto, le trasmissioni radiofoniche, le frequenze disturbanti, le campane, le esplosioni di antonioniana memoria. E poi ci sono le chitarre “giuste”, quelle sei corde non invadenti con il suono di “Gilmour pur senza Gilmour”, tanto per citare un ottimo musicista, un personaggio importante ma a cui – purtroppo per lui – è sempre mancata la famelica visionarietà di Waters. 



Sinceramente il nuovo disco di Waters ogni tanto occhieggia un po’ troppo (molto più che nei precedenti Pros and Cons e Amused, mentre Radio KAOS è un’altra vicenda...) a citare le soluzioni e produzioni dei tempi gloriosi, ma forse la cosa la si può attribuire agli interventi di Jonathan Wilson e Nigel Godrich (produttore dei Radiohead), chitarrista e produttore che forse non vedevano l’ora di riprodurre e proiettare il loro personale universo pinkfloydiano. Ma tutte queste sono considerazioni sostanzialmente leziose. 

La realtà è che ancora una volta a 73 anni in questo disco si esprime potentemente Roger Waters, il musicista che forse più di ogni altro ha espresso la dolorosa autocoscienza dei giorni nostri. Nel nuovo album si parte con When We’re Young, una sorta di antefatto frammentato che lancia (come in un coro da tragedia greca) interrogativi che si inseguono tra voci sovrapposte e inquietanti sui mali dell’uomo intuiti dalla giovane età (“sono i nostri genitori ad averci fatto così, o è stato Dio? Ma chissene frega, tanto questa vicenda non finisce mai”). Da qui si parte per fare il punto sulla nostra epoca con Deja vu, una ballata (già eseguita live da qualche anno) per piano e chitarra acustica, che esplode di inusitate delusioni (“Se io fossi stato Dio avrei fatto le cose più semplici, gli uomini più forti, e resistenti all’alcool e alla vecchiaia”). 

Con una partenza così feroce, canzone dopo canzone (da Broken Bones a Picture That) il disco si immerge in un incubo sonoro, come fosse un Apocalipse Now sul pentagramma, in cui l’unica scia di luce è lasciata sulle varie tracce del disco da un’inafferrabile figura femminile che lentamente emerge e attira, una bellissima e impalpabile lei, simbolo di amore, bellezza, purezza. Una volta – canta Waters – l’uomo annusava il profumo delle rose (Smell the Roses), oggi preferisce il fosforo, oppure il denaro di Wall Street. Eppure lei, la donna ineffabile del disco, viva o morta, risorta o sepolta, è quasi sempre li, ombra che serpeggia sotto la traccia di canzoni come Most Beautiful Girl. Nei momenti più fastidiosi di questa carrellata di atrocità (influenza di James Ballard?) ci sono le voci di Donald Trump e il riferimento ai killer dei nostri tempi, massacri e interessi occidentali, bullismo e donne sventrate, bambini violentati e televisioni sempre accese. Ma come ai tempi di The Wall, lo sguardo di Waters non è mai di accusa etica: l’accusatore si confonde con l’accusato, perché ognuno è sul tavolo degli imputati. E’ il nostro tempo, che ci trascina nell’indifferenza, che ci rende colpevoli, spettatori di quella “banalità del male” che rende tutti indistintamente “numb”, come nella narrazione celebre del suo personaggio Pink.

Il finale dell’album è un triplice movimento connesso e conclusivo, come già in certi momenti di Animals (Pigs on the Wing): Wait for Her, Ocean Apart e Part of Me Die sono i titoli finali, le canzoni dell’attesa, che compongono nell’insieme una maestosa suite governata da una melodia per pianoforte che rimane impressa nella memoria. Per salvarsi dall’inferno, Roger Waters propone una nuova logica: non importa se “lei”, l’amore che salva, viene subito o viene più tardi, perché l’importante è attenderla. L’inferno di noi e degli altri, l’insensatezza violenta del tempo e del denaro, tutto viene ricompreso, rinarrato e ri-macerato nella maestosa Part of Me Die, cinque minuti di ballata finale. Tutto il peggio è dentro ad ognuno di noi, menzogne, violenze, stupri, tradimenti, indifferenza, silenzio, perversioni, esecuzioni, brutalità, interessi, sete di sangue e di ricchezze. Ma tutto il peggio di noi muore quando incontriamo lei, l’amore che tutto purifica e rasserena. 

Ma dunque chi è “lei”? Cosa abbiamo perso, vivendo il nostro inarrestabile progresso? Chi abbiamo assassinato? L’umanità? La Bellezza? Chi è la bellissima e misteriosa “lei”? L’Amore? La Speranza? O la Grazia? Cosa abbiamo smarrito, chiede dopo 50 anni di carriera musicale mister Roger Waters? 

Is This the Life We Really Want? è un disco apocalittico come una discesa nella fossa delle Marianne, ma in cui il peso delle violenze è bilanciato dal peso delle domande, dei tanti interrogativi che si ergono in un disco che anche nel titolo riprende le prime tre righe di Postwar Dream (The final cut): “Dimmi la verità papà, dimmi perché Gesù fu crocifisso, è per tutto questo che papà è morto, era per me?”  Quale è la vita che abbiamo realmente voluto, che realmente desideriamo? Violenza o attesa?

Disco di canzoni importanti e di sonorità ben note, questo ritorno di Waters rilancia la possibilità per la musica rock di avere uno spazio autorevole di riflessione sui nostri tempi. Lui ha fatto il suo mestiere e lo ha fatto con impegno. Sta al mercato (e agli ascoltatori) decidere se val la pena seguirlo ancora oggi, come quando nei decenni scorsi mezzo mondo pendeva dalle labbra dei Pink Floyd. 

Semmai ci si può chiedere ancora se c’è ancora spazio per personaggi come Waters e per messaggi musicali impegnativi. Nel rock e nella cultura contemporanea c’è ancora spazio per chi riesce ad esprimere in musica domande che dall’oggi tendono al per sempre? Oppure la musica è fatta esclusivamente per non pensare? E la vita che vogliamo, in fin dei conti, qual è?