Milano, 15 novembre 2008, Magazzini Generali: il nuovo fenomeno indie, forte di 600.000 copie vendute con l’album di debutto solo nel Regno Unito, sbarca in Italia. Ad attenderli un pubblico eterogeneo che combina giovani e meno giovani, barbe lunghe e camicie a scacchi, folk e pop. Si tratta dei Fleet Foxes, band originaria di Seattle guidata da Robin Pecknold che con la sua musica ha contribuito a rivisitare e a dare nuova freschezza al folk.
Nel 2011 poi, dopo un passaggio al Bataclan, tornano nel nostro Paese un’ultima volta a Roma, a Bologna e con una data conclusiva a Milano al Teatro Smeraldo che di lì a poco avrebbe chiuso i battenti per lasciare spazio al meglio degli ortaggi e dei salumi italiani. Dopo il tour in Giappone nel Gennaio 2012 più nulla. Stop. Silenzio. Kaput. All’apice del successo, proprio quando anche i promoter nostrani avrebbero potuto ambire per loro ad un Forum “Completamente sold out”, il leader della band Robin Pecknold decide di prendersi una pausa per continuare gli studi alla Columbia University. Ragione più unica che rara per scrivere così velocemente la parola “Fine” a fianco ad una band dalle belle prospettive. E poi diciamocelo, si tratta di una scelta davvero poco rock’n’roll! Roba da far attorcigliare le budella a vecchi rocker come Ozzy Osbourne, Keith Richards, Axel Rose che con le loro intemperanze hanno contribuito ad attribuire una certa reputazione alla categoria del rocker. Insomma da non credere visto che si è per lo più abituati ad interruzioni provocate da questioni di droga, da litigi per denaro e da incidenti vari.
Successivamente, complice la nuova ondata di band folk rock, le tracce di Pecknold e della sua Flotta si sono fatte sempre più rade. Il solo Josh Tillman, già batterista della band che in passato aveva avuto anche modo di aprire i concerti del gruppo stesso, ha fatto parlare di sé e ha continuato con successo la sua carriera solista diventando Father John Misty.
Destinati ad essere dimenticati dal grande pubblico e a rimanere una band di culto dei tempi che furono, con l’uscita a metà giugno del terzo album Crack-Up, ben sei anni dopo il controverso Helplessness Blues, ecco ufficialmente il ritorno alle scene dei Fleet Foxes.
Si tratta anzitutto del primo album Nonesuch dopo che i precedenti (EP incluso) erano tutti targati Sub Pop / Bella Union. Il titolo dell’album è tratto dall’omonima raccolta di saggi di Francis Scott Fitzgerald del 1936, scritti che descrivono le crisi esistenziali dell’autore e sono considerati da Robin talmente importanti tanto da averlo aiutato a trovare quello che stava cercando e a: “Costruire le ragioni per vivere”.
Se ci si limita alle armonie vocali del disco, i rimandi sono ancora a Simon & Garfunkel, Beach Boys e CSN. Fatta eccezione per Kept Woman, If you need to, Keep Time on me e On another Ocean (January/June), che sono più fedeli ai primi Foxes, le dolci melodie tipiche dell’esordio sono in questo album amalgamate a lunghe divagazioni strumentali e combinate a suoni dalle provenienze geografiche più disparate. In alcuni casi come Cassius,- e Fool’s Errand il risultato è ben riuscito anche se il meglio dell’album è da ritrovare nel primo singolo diffuso ovvero Third of May / Odaigahara. Il pezzo è disponibile anche in versione Radio Edit, più “digeribile” dei 9 minuti che rischiano di disorientare l’ascoltatore occasionale. Nello specifico Third of May è dedicata alla band e al lungo rapporto di amicizia con Skyler Skjelset (il 3 di maggio è il suo giorno di nascita), chitarrista e co-fondatore della band. In altri casi come I am all that I need/Arroyo Seco/Thumbprint Scar (già il titolo è tutto un programma) e la conclusiva Crack-up sono una somma di suoni ingarbugliati dove a prevalere è un risultato confuso.
In generale l’album è ricco di orchestrazioni complesse e di spazi strumentali che talvolta si mescolano a fatica con la canzone in cui sono inseriti. La novità e l’immediatezza nell’ascolto, che sono state il biglietto da visita della band dieci anni fa, con Crack-up invece gli arrangiamenti si fanno più articolati e l’ascolto si appesantisce. I Fleet Foxes hanno stravolto ancora una volta la loro proposta musicale: ci sono ancora le loro tradizionali armonie vocali, se vogliamo sempre più ricercate, combinate e arricchite da movimenti di musica classica che tuttavia vanno a scapito della melodia. Meritano però fiducia, si vede che i Foxes hanno studiato, c’è tanta qualità nel loro lavoro. Pertanto per quanto sia richiesto uno sforzo ulteriore nell’ascolto, la resa è migliore passaggio dopo passaggio. L’evoluzione artistica e sonora di una band è di per sé un fatto naturale. Nel peer dei Foxes band come i Mumford & Sons hanno cambiato strada e il banjo è stato sommerso da un frastuono di suoni mentre gli Avett Brothers con il loro ultimo True Sadness hanno dimenticato le loro origini. I Fleet Foxes invece hanno continuano coerentemente nel loro processo creativo pur avendo prodotto tre album completamente diversi l’uno dall’altro.
In ogni caso la notizia più confortante è che Robin e le sue Volpi sono tornate e sono “here to stay”: Robin è già al lavoro sia per un album solista che per il seguito di Crack-Up. Per di più Pecknold pare sia intenzionato ad ampliare la flotta di musicisti: ha utilizzato il suo profilo Instagram per diffondere la ricerca di un nuovo touring member. “If you play string instrument (violin/viola/cello) and sing great and want something to occasionally do for two years …”. Ovviamente sono stati inondati di candidature. La selezione è ancora in essere e anche se non avete la barba lunga ma avete cantato nel coro parrocchiale e suonato il violino alla festa di San Patrizio, l’occasione è quella buona… ma fate in fretta non manca molto all’appuntamento del 3 luglio per salire sul palco con i Foxes a Ferrara Sotto le Stelle.