Dalla sempre encomiabile Synpress di Donato Zoppo, vero e proprio osservatorio prog dell’ultimo ventennio, prima di due proposte interessanti per l’estate, una manipolazione di stili e generi ad opera di un gruppo di musicisti vicentini di stanza in Olanda.  

Il colpo d’occhio sui ruoli è tutto un programma.  Un chitarrista elettrico – Mauro Nicolin – che è anche voce solista nonché addetto ai live electronics.  Un bassista – Daniele Tarabini – che si occupa anche del flauto.  Un tastierista – Matteo Graziani – che talora imbraccia e accarezza le corde di un violino.  Un batterista – Riccardo Nicolin – deputato a ispezionare i battiti inconsulti dei marchingegni ritmici. 



Loro sono i Syncage, il loro intento con l’album d’esordio “Unlike Here” quello di far convergere la massima varietà possibile in un insieme coerente e degno di ascolto, e il tutto sembra valere il gioco. 

Tanto che l’inizio si attesta su brani concisi che in quattro minuti sembrano in grado di dire tutto il necessario.  School, barriere sonore e fragori nu metal, vocalità bizzarra e umorismo strafottente alla Belew, stacchi e iniezioni di organo che danno respiro all’ascolto prima di un solo pungente di elettrica.  Uniform sonorità acustiche mosse dalle arie medioevali di un violino ora aspro ora docile, voce che si dibatte multiforme e istrionica tra teatro e rock sperimentale.  Still Unaware danza turbolenta intervallata da schizzi elettrici e delicate fasi inquietanti con disegni sonori di piano e basso.  Bearing The Colour gusto del cantabile unito a melodia rock d’autore.  Skyline Shift, da ballata acustica stralunata a parentesi elettriche controllate per tornare in modalità sospesa, Stones Can’t Handle Gravity tra figure bucoliche e abbozzi dissonanti.



I Syncage ci mettono di fronte a un approccio  che – in linea con la metodologia cardine del prog – si propone di forzare tutti i possibili confini di stile e genere, ma forte di una gestione oculata in grado di selezionare i necessari momenti di distacco e affrancamento da tentazioni di trip incontrollati ricorrenti tra gli adepti del filone.  Il concept sembra rifletterne l’intento, sorprendere sé stessi deponendo comode maschere per trovare con consapevolezza nuove strade.  E il seguito – che presenta i brani più estesi – contribuisce ad ampliare il ventaglio dei possibili riferimenti. 



Ecco allora una Redirect che si allunga tra chitarre dure e strozzate e violini al vetriolo, per un dettato vocale grottesco e provocatorio che riporta in primo piano influenze belewiane e metal alternate a brevi fasi riflessive.  E poco più in là Edelweiss, proverbiale tour de force dove in quattordici minuti si susseguono temi, spunti e virate di stile.  Dal melodrammatico, al teatrale a più voci, all’heavy, al rock cameristico, a classiche matrici prog, fino a sfiorare influenze asiatiche.

C’è giusto il tempo per un’altra ballata come Hunger Atones, prima di una Unlike There che chiude con i classici dieci minuti di mescolanze elettro acustiche, inflessioni romantiche e vagiti jazz-rock. A voler individuare una media ideale del loro stile, si potrebbero annoverare come duri e piacevoli, sperimentali e melodici al tempo stesso.  C’è sicuramente tanto, di tutto e di più, talora forse troppo ma di certo non ci si annoia mai.