Cosa voleva significare negli anni della prima guerra mondiale Die Frau ohne Schatten (“La Donna Senz’Ombra”) di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss? E cosa vuole dire oggi, circa un secolo dopo la sua prima messa in scena a Vienna nel 1919? Strauss considerava quest’opera il suo capolavoro assoluto. Quando, durante la seconda guerra mondiale, veniva invitato a dirigere Der Rosenkvalier (“Il Cavaliere della Rosa”) si scherniva dicendo che era uno lavoro troppo lungo, e, quindi, troppo faticoso per un uomo che viaggiava verso l’ottantesimo compleanno. Diceva agli amici: “però, se mi chiedessero dirigere Die Frau ohne Schatten, forse risponderei di sì”. Eppure Die Frau ohne Schatten è più lunga e molto più complessa (sotto il profilo orchestrale e vocale) di Der Rosenkavalier.
Die Frau ohne Schatten viene rappresentata molto raramente in Italia. Viene spesso detto che una delle ragioni per la scarsa presenza di Die Frau ohne Schatten nel nostro Paese è da imputarsi al costo dell’operazione: cinque grandi protagonisti, una schiera di comprimari (un totale di circa 25 solisti), un doppio coro, un organico orchestrale smisurato, un allestimento scenico che prevede un impianto a due livelli, trasformazioni a scena aperta, una cascata e via discorrendo. Ma osservazioni analoghe si possono fare anche per la pucciniana Turandot.
Viene anche detto che il libretto è troppo macchinoso e troppo denso di simboli per essere compreso. In effetti, il nodo di fondo è che agli italiani non piacciono le favole. E Die Frau ohne Schatten è, in primo luogo una favola, solo apparentemente complicata. Per comprenderla non è necessario, leggere il denso epistolario tra Hofmannsthal e Strauss pubblicato in italiano dall’editore Adelphi circa vent’anni fa e forse neanche il mirabile saggio di Mario Bortolotto La Serpe in Seno. Non occorre addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via).
Il filo dell’apologo è lineare e ci conduce facilmente attraverso uno spettacolo che, intervalli compresi, dura oltre quattro ore: un uomo ed una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro: senza figli, tanto gli uomini tanto le donne restano in un eterno presente senza significato (e senza storia) e in una nube di noia. La gioia (ed avere figli è la gioia suprema) si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di sofferenze. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti. Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna.
La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata dalle fatiche quotidiane per poter fare l’amore. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei Cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale.
Hofmannsthall e Strauss pensavano senza dubbio alle esigenze di rinascita nell’Europa distrutta dal primo conflitto mondiale: non per nulla nella loro opera precedente – Ariadne auf Naxos –avevano cantato, in piena guerra mondiale, la vittoria di Eros su Thanatos. Il messaggio è più che mai attuale oggi in un Continente vecchio e che sta invecchiando sempre di più ed in cui l’edonismo vacuo sembra avere la prevalenza su quella vera gioia per giungere alla quale occorre soffrire. Un Continente dove la denatalità è una piaga di cui ci si ricorda solamente quanto ne vengono diramate le statistiche.
Ulf Schirmer e la Gewanhausorchester hanno fornito un’esecuzione mirabile, pari a quella , in studio, di Karl Boehm quando la stereofonia era ad i suoi inizi
Non solo alcune parti vocali sono davvero impervie, ma ci sono momenti di estrema difficoltà: nel quartetto tra il messaggero, la nutrice, Barak e la donna, due personaggi cantano simultaneamente in scena e due sono fuori scena – ciò comporta grandi difficoltà per mantenere l’equilibrio tra le voci e tra esse e l’orchestra.
Lo spettacolo del 18 giugno (a cui ho assistito e che concludeva il Festival Strauss) è stato turbato da una malattia della protagonista (La Donna di Barak), Jennifer Wilson, che è anche il ruolo vocalmente più arduo. Lo si è risolto sostituendola con Elena Pankatrova, che, arrivata pochi minuti dall’inizio, ha cantato sul lato del palcoscenico mentre un attrice recitava in scena. La Pankatrova, che colpì il pubblico italiano nel 2010 al Maggio Musicale Fiorentino, conosce la parte a puntino ed è forse uno dei rari soprani che oggi può impersonare il ruolo, ma non la regia di Balàzs Kovalik.
Prima di andare alla parte più squisitamente teatrale, occorre ricordare che Strauss amava molto le voci femminili. In La Donna Senz’Ombra, si ha la massima esaltazione delle vocalità femminile: al soprano drammatico (La Donna) si affiancano il soprano lirico (L’Imperatrice, Simone Schneider) ed il mezzosoprano tendente al contralto (La Nutrice, Karin Lovelius). L’intreccio delle loro voci (e di altre dodici donne in personaggi minori) ha dato esiti mirabili anche grazia all’ottima acustica del teatro dell’opera di Lipsia.
Tra le voci maschili spicca il baritono Franz Grundheber (Barak), il quale è anche un grandissimo attore che, in modo commovente, giustappone la propria semplice ma genuina sofferenza a quella dell’Imperatore (il tenore Burkhard Fritz): ambedue, ad un certo momento della vicenda, credono di essere traditi dalle proprie mogli.
La regia (Balàsz Kovalik) segue fedelmente il libretto e gli effetti speciali richiesti (discesa del mondo dell’Imperatore a quello dei poveri, terremoti, incendi, animali parlanti – o meglio cantanti – , fontane da cui sgorga acqua, incendi, ponte che collega il mondo celeste e quello umano e sotto cui cammina l’intera umanità. Le scene (di Heike Scheele) ed i costumi (Sebastian Ellrich) sono quasi atemporali per significare l’universalità del messaggio. Ad esempio, il salone con statue neoclassiche e la sala da pranzo del Palazzo dell’Imperatore rievocano la Germania guglielmina dell’epoca di Bismarck, mentre il quartiere dove vivono Barak e la moglie un’area di case popolari di quella che trent’anni fa doveva essere la Germania dell’Est.
Un palcoscenico enorme ed attrezzato con ascensori (le scene, costruite salgono e scendono) rende tutto questo possibile.
In Italia, esistono unicamente tre teatri che possono ospitare uno spettacolo così elaborato. Che uno di loro si faccia avanti.