La preoccupazione, prima di questo evento, c’era ed era tanta. C’erano vari fattori a provocarla: la nostra cattiva nomea nell’organizzare raduni musicali in vasti spazi con tanta gente, l’incognita di una nuova location, in una città come Firenze, con conseguente viaggio da sobbarcarsi; ma soprattutto, pesavano le polemiche per gli enormi disagi patiti dal pubblico durante i quattro giorni dell’I-Days di Monza, dove tra parcheggi che costavano come un concerto di un artista di media caratura, insensati chilometri a piedi per raggiungere il palco, acqua finita in anticipo, code mostruose alle casse e il famigerato sistema dei token per consumare, le impressioni di un fallimento totale da parte degli organizzatori erano forti. A me, che avevo partecipato solo alla giornata dei Radiohead, non era andata poi così male; ma in ogni caso, per tutti questi motivi e anche altri, la voglia di stare a casa era tanta.
Lo avranno forse pensato in molti, visto che una volta arrivati sul posto, ci siamo impressionati per il numero di persone che cercavano di vendere biglietti in sovrannumero (c’erano addirittura tagliandi per l’Inner Pit “regalati” a 45 euro, cosa che mi ha fatto pensare che forse, d’ora in avanti, non convenga più di tanto correre dietro alle prevendite il giorno stesso dell’apertura).
Per questo concerto poi, c’erano già state ulteriori polemiche a causa della defezione improvvisa di due artisti della line up: i Cigarettes After Sex, che si sono forse resi conto che una mezz’oretta sotto il sole cocente davanti a un pubblico annoiato, non sarebbe stata un’occasione così ghiotta per loro; i Cranberries, che erano molto attesi, perché Dolores O’ Riordan, ancora una volta, ha problemi di voce, per cui si è trovata costretta a cancellare anche la seconda tranche delle date previste (il mese scorso era già saltato il concerto agli Arcimboldi di Milano).
Per carità, l’headliner era Eddie Vedder e Glen Hansard, l’altro nome a lui affine come proposta, rimaneva ben saldo in cartellone. E poi gli organizzatori non c’entravano assolutamente nulla. A far discutere, più probabilmente, è stato il modo con cui sono stati sostituiti: Eva Pevarello e Samuel non sono per nulla vicini, come genere musicale, ai due nomi in programma originariamente. E si sa, in Italia non esiste un festival che la gente frequenti a prescindere: se si eccettuano pochissime eccezioni (vedi il Siren a Vasto o il Beaches Brew a Marina di Ravenna) noi rimaniamo ancora legati ad un artista, piuttosto che al Brand di una manifestazione. Naturale quindi che in tanti si siano sentiti presi in giro e abbiano chiesto (è girata una petizione in rete nei giorni scorsi) il parziale rimborso del biglietto.
Per tutte queste ragioni, le premesse non erano buone e nel salire in macchina alla volta del capoluogo toscano, i timori di andare incontro ad un fallimento totale erano molti.
Non è stato così. Innanzitutto la facilità del parcheggio, gratuito e a pochi passi dall’ingresso dell’Arena Visarno (che è poi l’ex ippodromo, non diversamente da quanto si fa a Milano). Poi l’entrata, agile e soprattutto senza quei chilometri a piedi che ci siamo subiti a Monza. Altrettanto rapida la procedura del ritiro biglietti e, una volta entrati, un ambiente accogliente, con tantissime zone per prendere ombra (la giornata non era caldissima ma il sole era comunque implacabile) e una serie di servizi tutti ben posizionati. Un bel posto quindi, dove tutto ha funzionato alla perfezione e che, al netto della mia particolare avversione per i grandi concerti all’aperto, potrebbe tranquillamente divenire un bel punto di riferimento in futuro.
Ma veniamo al concerto, senza dilungarci troppo. Gli Altre di B sono una band bolognese che è stata aggiunta all’ultimo momento al bill e che ha registrato un paio di dischi ottenendo buoni consensi (l’anno scorso sono stati anche invitati al celebre Primavera Sound di Barcellona). In un panorama musicale indipendente dominato dall’approssimazione e dal tono svaccato dei vari Lo Stato Sociale, Ex Otago e Thegiornalisti, loro guardano piuttosto al mondo anglosassone, con un rock robusto e d’impatto che sembra direttamente figlio della seconda ondata di Brit Pop, quella di inizio duemila (Arctic Monkeys su tutti). Anonimi, forse, senza un songwriting di spicco, ma energici e piuttosto bravi a tenere un palco così grande. Non male, come risultato.
Diverso discorso bisogna invece fare per Eva Pevarello. Nonostante la sua band veda la presenza del violinista Rodrigo d’Erasmo (una vita con gli Afterhours ma mille altre collaborazioni in Italia e all’estero, non da ultimo quella con gli Afghan Whigs), che la introduce brevemente facendola apparire già da subito in posizione di debolezza, la ragazza proprio non è riuscita a convincere. Indubbiamente brava, voce dal timbro aggressivo padroneggiata con sicurezza, propone un repertorio di una sciattezza e di una banalità assoluta e oltretutto non dà l’impressione di essere del tutto padrona della situazione. La dimostrazione, se mai ce ne fosse bisogno, che non è partecipando ad un talent come X Factor e calcando immediatamente palchi di queste dimensioni, che si può arrivare a costruirsi una carriera di rispetto. La vita del musicista rock è fatta di tanta gavetta e di duri sacrifici, la visibilità è solo una conseguenza, non può essere un mezzo.
L’impressione, e lo dico con tristezza, è di avere assistito all’esibizione di un’artista già bruciata prima ancora di raggiungere i blocchi di partenza. Con, in più, l’umiliazione di vedere il proprio set ridotto a sole quattro canzoni, per far spazio ai due sedicenti Dj di Virgin Radio (partner della manifestazione), vale a dire una delle principali ragioni per cui in Italia la conoscenza della musica rock è ancora a livello dell’età della pietra. I due (uno è il celebre Ringo, l’altro non me lo ricordo e non voglio neppure sforzarmi per cercare il nome) passano una buona mezz’ora a fare zapping tra le canzoni come un adolescente medio alle prese con Spotify. Mai più di un minuto per brano, una selezione di un generalismo imbarazzante (dai Red Hot Chili Peppers ai Green Day, dai Jet ai Ramones), aggravata dal fatto che, a giudicare dalla reazione dei presenti, parecchi sembrava aspettassero solo quello. Un momento triste e indecoroso, trenta minuti sprecati che avrebbero potuto essere utilizzati meglio, ad esempio per allungare i set degli artisti presenti in cartellone. Possiamo lamentarci finché vogliamo, ma fino a quando il compito “educativo” sulla musica sarà lasciato a certi Network, non usciremo mai dall’arretratezza nella quale ci troviamo da sempre, fin dai tempi dei Beatles.
Per fortuna che ad un certo punto arriva Samuel. Devo dire la verità: non ho mai amato i Subsonica, pur stimandoli enormemente per tutto ciò che hanno saputo costruire in oltre vent’anni di carriera. Il suo debutto solista “Il codice della bellezza” non mi aveva entusiasmato ma bisogna ammettere che, a vederlo dal vivo, le cose cambiano. Probabilmente le singole canzoni non brillano per originalità e alcune appaiono in tono minore, ma in quanto a suoni, impatto e tenuta del palco, siamo a livelli altissimi. Magari non proprio umile (certe battute sul fatto che si era già comprato il biglietto per i Cranberries hanno avuto un non so che di ambiguo) ma più probabilmente, uno che si è trovato all’improvviso a doversi conquistate una platea in gran parte ostile e ha fatto un egregio lavoro, anche se, alla fine del set, non sappiamo se abbia davvero portato a casa il risultato. Rimane, almeno per il sottoscritto, il ricordo di un concerto godibilissimo.
Arriva finalmente il momento di Glen Hansard, che era quello che, assieme ad Eddie Vedder, tutti (in teoria) stavano aspettando. Dico “in teoria” perché quando il musicista irlandese, reso celebre dal suo ruolo da protagonista in “Once”, sale sul palco e attacca con “When Your Mind’s Made Up”, proprio dalla colonna sonora di quel film, non sembrano in molti a rendersene conto. Da parte sua, il simpatico e gioviale busker non sembra darsene pensiero e incanta lo stesso con il suo set fatto di canzoni meravigliose ed espressività esecutiva senza pari. La band è ridotta all’osso, senza la sezione fiati e priva degli archi, per cui certi episodi (come “Lowly Deserter” o la conclusiva “Her Mercy” ) appaiono eccessivamente scarni. Nonostante questo, quando rimane da solo alla chitarra e suona cose come “Revelate”, perla del suo passato coi The Frames, o una “Astral Weeks” di Van Morrison pazzesca per intensità emotiva, si capisce che spesso, quel quid che rende un musicista al di sopra della media è un qualcosa che non si vede e che non è misurabile matematicamente. Probabilmente questa è la platea più grande davanti a cui si sia mai trovato a suonare ma non se ne lascia intimidire e si comporta come se fosse in Grafton Street un sabato pomeriggio qualunque. Meraviglioso, ma del resto chi scrive cose come “Winning Streak” o “Bird of Sorrow” ha già vinto in partenza.
Finalmente, Eddie Vedder, dopo una pausa più lunga del previsto dovuta al fatto che è San Giovanni e che bisogna aspettare la fine dei fuochi d’artificio in città. Il cantante dei Pearl Jam ha notevolmente incrementato la propria visibilità da quando, nel 2007, ha firmato la colonna sonora di “Into the Wild”, il film diretto dal suo grande amico Sean Penn. Canzoni che hanno permesso di apprezzare la sua voce all’interno di un contesto intimo e malinconico ma commercialmente fruibile anche da chi non avesse una grande dimestichezza con i suoi passati trascorsi.
Da allora, è arrivato un altro disco, “Ukulele Songs”, decisamente meno ispirato del primo, e c’è stato qualche tour da solista, che però mai prima d’ora aveva toccato l’Europa. Avevo avuto l’enorme privilegio di vederlo a Montreal, nell’estate del 2008, ed ero rimasto folgorato dal modo in cui, armato di una semplice chitarra acustica o elettrica, riuscisse a reggere due ore tenendo sempre costantemente alta la tensione.
Stasera però è diverso: in precedenza aveva sempre suonato in posti al chiuso, più o meno raccolti, teatri e sale da concerto. Questa volta si trova in uno spazio enorme, all’aperto con quarantamila persone davanti. Situazione per lui abituale quando si esibisce con la sua band, ma è la prima volta che gli accade da solista, considerato che anche questo suo nuovo tour si sta muovendo secondo le solite modalità.
Logico pensare che si debba cambiare modo di procedere: non più il cantautore solitario che suona ballate crepuscolari, ma il rocker navigato che, pur ugualmente da solo con la sua chitarra, prova lo stesso a incendiare gli animi dei presenti come in un normale concerto da stadio.
Lo si capisce sin dall’inizio: “Elderly Woman Behind the Counter in a Small Town” è un classico dei Pearl Jam che è perfetto da cantare in coro e con il quale non poche volte la band ha iniziato i suoi concerti. Suona come una precisa dichiarazione d’intenti: “Questa sera siete in tanti, faremo festa tutti insieme, ci divertiremo”. Segue a ruota una versione di “Wishlist” piuttosto tirata, sempre dal catalogo dei Pearl Jam, sempre un brano che ha il sapore dell’inno comunitario. Il pubblico risponde benissimo, canta ogni singola parola, non fa mancare il suo entusiasmo.
Subito dopo, con l’inattesa “Immortality” l’atmosfera si fa più tesa e Vedder ci ricorda di essere un performer di prim’ordine, regalandoci un’esecuzione da brividi durante la quale non vola una mosca.
In effetti, la cifra stilistica dell’artista nativo di Chicago è proprio questa: la sua voce ha un timbro unico e lui la usa alla perfezione, soprattutto sui toni medio bassi, visto che col passare degli anni parte dell’originaria potenza e aggressività è andata perduta.
L’impressione è infatti quella che ora, in questo particolare momento della sua carriera, la dimensione solista sia per lui più congeniale. Nel 2014 lo vidi per l’ultima volta con la band e durante quei due concerti mi ero trovato davanti un cantante ormai giunto al capolinea.
Questa sera mi ha invece incantato e credo che molto si debba al fatto che, avendo bisogno di una minore estensione, può valorizzare quegli aspetti della sua voce dove è sempre stato imbattibile.
Con queste premesse, ne è venuto fuori un concerto indimenticabile. Leggermente diverso, appunto, dai suoi soliti, perché i brani dei Pearl Jam hanno occupato molto più spazio del normale e questo è avvenuto a discapito delle cover, che sono di solito il vero piatto forte dell’Eddie solista. Abbiamo comunque potuto godere di una splendida “Trouble” (Cat Stevens), che è un pezzo che ama molto proporre, nonché di una intensissima “The Needle and the Damage Done” (Neil Young), con menzione speciale per “Comfortably Numb” (Pink Floyd), eseguita all’Harmonium, uno degli episodi più emozionanti, nonostante un macroscopico errore a metà.
Il pubblico voleva cantare, voleva battere le mani, voleva urlare. E lui glielo ha fatto fare, per ampie porzioni dello show. Ma ci sono stati anche momenti in cui è prevalsa l’esigenza di suonare cose che andassero ascoltate in silenzio. È accaduto con “Guaranteed” (“Posso suonarvi qualcosa di più tranquillo, adesso?”) ma è proseguito con altri episodi da “Into The Wild”, come una commovente “Rise”, eseguita al mandolino o ancora, con “Can’t Keep” e “Sleeping By Myself”, unici estratti da “Ukulele Songs” e ovviamente suonate accompagnandosi con quello strumento.
Ma uno show di Eddie Vedder non è mai uno show come gli altri. Perché Eddie Vedder, senza timore di esagerare, non è un artista come gli altri. Per lui stare sul palco è molto di più di un mestiere, ha molto a che vedere con quella che è la vera essenza della sua vita. È un modo per dire quello che è, per fare quello che gli piace fare. E questa sera c’era tanta voglia di incontrare il suo pubblico, tanto furore agonistico nel misurarsi con la nuova sfida della location, tanta preoccupazione per delle circostanze storiche in cui i concerti, invece che essere dei luoghi di gioia, rischiano di trasformarsi in luoghi di paura; tanta voglia, anche per questo, di dire cose vere, di farsi domande vere, anche se magari le risposte non le si conosce proprio del tutto.
C’è stato un bel momento, sulla coda di una emozionante “Sometimes”, in cui ha ripetuto più volte, come in trance, “Where are you Dear God?”, che è un verso che non è presente nel testo originale. E poi, subito dopo, quasi come a voler rispondere, ha attaccato “I Am Mine”, che dice che “So che sono nato e so che morirò e tutto quel che c’è in mezzo è mio”. Autodeterminazione, che è una delle facce del suo essere americano. Ma poi c’è l’altra faccia, quella della religiosità, che questa sera, a quanto mi è stato dato di vedere, è stata particolarmente presente. Saranno i tempi cupi che viviamo, sarà la scomparsa di Chris Cornell, ma questa sera ci è sembrato essere su quel palco con la voglia di divertirsi, ma anche con l’urgenza di farsi delle domande che c’entrassero col senso stesso del suo mestiere.
È accaduto prima di “Unthought Known”, quando ha detto che “Questa sera mi dicono che la luna sia crescente ma io da qui la luna non la vedo. Eppure so che c’è. Come Dio, forse”.
O quando ha chiesto a San Giovanni (“Adesso finalmente ho imparato chi è, prima non lo conoscevo”) di proteggere la città e i suoi abitanti.
O più avanti, quando si è lanciato in una intensissima versione di “Black”. Un brano che, so che questo scandalizzerà molti, dal vivo ultimamente mi aveva un po’ stufato. Ma in questo caso ho dovuto ricredermi perché in questa versione per chitarra e voce c’era dentro tutto, tutto quello che può essere racchiuso in un’intera esistenza. E alla fine di “Black”, arriva una coda improvvisata durante la quale ripete più volte “Come Back” e alla fine, quando termina il pezzo e posa la chitarra, ha un momento di intensa commozione, durante la quale è impossibile non pensare a Chris, il cui gruppo aveva vagamente menzionato nell’introduzione, che era suo grande amico e con cui ha diviso la nascita e la morte di un’era, a inizio anni Novanta, in cui a Seattle è davvero accaduto qualcosa di importante per tutta la storia della musica rock.
È stato tutto bello, tutto vero, tutto intenso. Talmente vero che gli si può perdonare una “Imagine” sicuramente bella ma che il sottoscritto ha sempre trovato stucchevole, per nulla rappresentativa di quel grandissimo autore che era John Lennon. È stato, per chi scrive, forse il momento più debole del concerto, quello dove il sentimentalismo, che ha fatto capolino più volte ma che è sempre stato lasciato sullo sfondo, ha rischiato seriamente di prevalere. Eppure, a detta di chi l’ha vista, quella stella cadente che si è fatta vedere subito dopo la fine del pezzo, ha conferito al momento una suggestività davvero fuori dal comune. Anche “Betterman”, che è arrivata a ruota, non mi ha entusiasmato, rappresentando forse il punto in cui la dimensione da stadio di questo concerto ha rischiato di sfuggire di mano, trasformando il tutto in un gigantesco karaoke. Forse “Last Kiss” ha alleggerito l’atmosfera, che è tornata su binari più consoni con una “MFC” praticamente improvvisata (gli è venuto in mente di farla proprio in quell’istante), dove Vedder ha parlato della moglie, conosciuta a Milano, dicendo che l’avrebbe raggiunto il giorno successivo assieme alle sue bambine. Un’esecuzione perfetta, per un brano che, essendo stato scritto in Italia, viene spesso proposto da noi.
Siamo più o meno alla fine ma il meglio deve ancora venire: Glen Hansard, che sta facendo con lui tutto il tour europeo, viene invitato sul palco e da questo momento in avanti non scenderà più. I due eseguono insieme “Falling Slowly”, tema portante di “Once” ed è bellissimo ascoltare l’amalgama tra le due voci e osservare come sia perfetta la sintonia tra i due. Due amici, prima ancora che due musicisti. Ma amici proprio perché musicisti, proprio perché condividono la stessa visione della musica come un qualcosa che può rischiare davvero di salvare la vita.
Diviene lampante un istante dopo: Glen rimane sul palco con la sua acustica e attacca “Song of Good Hope”, il brano che chiude il suo primo disco da solista. Eddie inizia a cantarla e scende in mezzo al pubblico, per un “bagno di folla” che non ha assolutamente nulla di celebrativo, che ha solo a che vedere con la voglia di andare ad incontrare più da vicino quel pubblico con cui sta dialogando da quasi dire ore. È un momento davvero toccante, forse il più intenso di tutto il concerto, e che lui abbia deciso di viverlo sulle note del brano di un altro, dice tantissimo della sua umiltà e semplicità. In più, se ascoltiamo le parole della canzone (“Prendi tempo, ragazza, non è così brutta come sembra; andrà tutto bene, ci sono solo dei fiumi e delle correnti nel mezzo, ci sei tu e il luogo dove vuoi essere. Leggi i segni, saprai che cosa significano e andrà tutto bene. Stai con me e abbi speranza, camminerò con te attraverso ogni circostanza”), ci rendiamo conto che il succo di questa serata potrebbe anche essere tutto qui. Camminare insieme, sperando che tutto vada bene. Forse non è abbastanza ma di sicuro è un buon punto da cui partire.
Il finale, dopo una “Society” da brividi sempre cantata assieme a Glen Hansard, è, come era lecito aspettarsi, una festa dove “Smile”, “Rockin in the Free World” e “Hard Sun” (quest’ultima con la band di Glen Hansard al completo impegnata ai cori) si susseguono una dopo l’altra, col pubblico che salta e balla e proprio non ne vuole sapere di andare a casa.
Eddie Vedder ha vinto, ancora una volta. E più delle altre volte, ho capito perché lui, a differenza di Kurt Cobain, di Layne Stayley, di Scott Weiland, di Chris Cornell (e questo nome non avrei mai voluto scriverlo) è ancora qui. Perché lui, a differenza degli altri, ha imparato a convivere coi suoi demoni interiori e ha capito che il successo è una cosa seria, serissima, ma che non puoi lasciare che sia il successo che ottieni a dirti chi sei.
Ci dispiace per chi ha venduto il biglietto. Noi questa sera andiamo tutti a casa più leggeri e più contenti.