L’altra metà del cielo, come Mao Tse-Tung aveva definito le donne, raramente ha avuto voce in capitolo nella storia del rock, ambiente maschilista per eccellenza, a volte anche in modo brutale. “Per loro eravamo solo delle gallinelle” dice l’autrice di questo libro.

Eppure la lista di coloro che, non solo musicalmente, ma anche come semplici mogli, amanti, compagne, hanno giocato un ruolo di primo piano in questa storia è lunghissima.



Protagonista della copertina di un disco definita a volte “la più bella”, “la più iconica”, “la più sentimentale”, Suze Rotolo è una di queste (a proposito, proprio come il suo fidanzato di allora cambiò il cognome da Zimmerman a Dylan, lei storpiò il suo nome Susan in Suze prendendolo da una rara marca di whiskey francese che si chiamava appunto così).



La copertina del disco in questione, lo sanno tutti, è quella di “The Freewheelin’ Bob Dylan” dove i due allora fidanzati sono fotografati teneramente stretti l’uno all’altro camminando per l’innevata West 4th Street dove condividevano una appartamentino: lui sembra James Dean, lei una Brigitte Bardot in miniatura. Il contrasto fra il contenuto del disco, canzoni di impegno civile e politico come le arcinote Blowin’ in the Wind, Masters of War, A Hard Rain’s gonna Fall fra le altre, e quell’immagine di amore adolescenziale (lui 21 anni, lei 18), dimostra che quel disco rappresentava qualcosa di più di quello che le canzoni dicevano. 



Quel disco rappresenta un decennio ai suoi albori, con tutto quello che ne conseguirà: “Gli anni 60 furono un periodo straordinario, denso di avvenimenti, un momento di protesta e ribellione. Una intera generazione aveva il permesso di bere alcol e morire in guerra a 18 anni, ma non aveva il diritto di voto fino ai 21 anni. I disordini furono inevitabili. Le parole generavano musica, e la musica generava parole (…) Viaggiavamo portando con noi il passato ed eravamo pronti a muovere nel futuro” scrive Suze Rotolo nell’introduzione alla sua autobiografia, uscita alcuni anni fa in America e adesso anche in Italia grazie al coraggio di Yuri Garrett, fondatore e direttore della casa editrice Caissa Italia, già editore della bellissima biografia di Leonard Cohen di Sylvia Simmons.

“A Freewheelin’ Time, sulla strada di Bob Dylan, memorie del Greenwich Village” (224 pagine, incluso un inserto di splendide fotografie dell’epoca, 22 euro) non è solo un libro sulla loro storia d’amore, che permise al cantautore di scrivere alcune delle sue più belle canzoni. Anzi, si parla quasi più del Partito comunista americano, dei locali del Greenwich, di Dave Van Ronk che di Dylan. Ma quello che viene detto del recente premio Nobel apre squarci illuminanti.

Cinquant’anni dopo quella storia, Suze Rotolo si apre definitivamente dopo aver mantenuto un riserbo e una privacy totale, almeno fino al 2002, quando per la prima volta si presentò a un convegno pubblico parlando di Dylan. Seguì il libro, nel 2008, che in un susseguirsi fatto di flash back senza una precisa narrazione cronologica, ci racconta di una realtà oggi in Italia del tutto sconosciuta. 

Cosa ha voluto cioè essere italiani e comunisti nell’America della caccia alla streghe; essere ultimi fra gli ultimi, tanto che gli italiani erano irrisi e messi in un angolo anche dagli irlandesi, immigrati come loro. 

Comunisti, ben presto disgustati dallo stalinismo, ma vittime comunque del maccartismo: erano spiati, ricercati, una vita quasi da fuggiaschi, costretti a nascondersi, fortunatamente sostenuti da una visione comunitaria e solidale, che permetteva a quelli più a rischio di ottenere aiuto e sostegno.

Un padre artista e illustratore, che le insegna il gusto del bello, la madre redattrice de L’Unità (sì, proprio il giornale italiano in versione americana): Suze impara a muoversi in un mondo alternativo, così diverso dalla superficialità borghese del boom americano del periodo. Per questo finirà, ancora studentessa del liceo, per ritrovarsi in Washington Square, la piazza del Greenwich Village dove già al finire degli anni 50 si ritrovavano folksinger, radicali impegnati politicamente, poeti insomma persone libere che con la musica propagavano libertà. L’impegno civile sbocciato già a 16 anni, i picchetti contro la catena di negozi Woolworth che negli stati del sud praticava il segregazionismo, la nascita dei Freedom Riders, studenti bianchi che andavano in quegli stati a parlare di diritti civili e venivano regolarmente massacrati di botte, l’appartenenza al Core. Il mondo stava cambiando, “the times they are a-changin'” e lei era lì, sempre nel cuore dell’azione. Anche il vecchio e obsoleto Partito comunista non aveva ormai più significato. 

E poi i locali del Greenwich, il Gerde’s, il Cafè Wha?, il Gaslight, il Kettle and the Fish, il Folk City Center, il Vanguard Jazz Center, una esplosione di vita mai immaginata, dove sempre più numerosi arrivavano questi strani giovani con una chitarra e che da Woody Guthrie in giù cantavano canzoni che facevano toccare con mano come la società stesse cambiando. La scoperta dei bluesman, l’amicizia con John Lee Hooker e Odetta. E Dave Van Ronk naturalmente, che come più anziano di tutti era il faro per ognuno, un trotzkista impenitente, sposato con una donna bellissima, che in casa sua accoglieva tutti a qualunque ora del giorno e della notte, per discussioni politiche e partite a poker. Fra questi anche un ragazzino appena giunto a New York, Bob Dylan.

“Bob era carismatico: era un faro, ma anche un buco nero. Richiedeva sostegno e protezione, che non sono stata in grado di fornire costantemente, probabilmente perché ne avevo bisogno io stessa”, dice candidamente Suze. Il primo incontro è a un concerto folk non stop, nella parte alta di Manhattan. I due si attirano immediatamente uno con l’altra: “Ogni volta che mi guardavo intorno, Bobby era nelle vicinanze. Pensavo avesse uno strano aspetto retto, piacevole nella sua trasandatezza. Era divertente, intenso e stimolante: era ostinato (…) Non era lineare: era imprevedibile e agitato (…) Cominciammo a flirtare dietro le quinte (…) Al termine del concerto maratona, io e Bob eravamo incollati uno all’altra”. 

Comincia così la storia dei due fidanzati di West 4th Street anche se dovranno attendere un anno prima di potervi andare a vivere insieme, quando lei avrà 18 anni. Due innamorati totali, che passavano sempre il tempo insieme, a casa, nei locali, in giro per New York tutta la notte comprando il pane appena fatto dal fornaio sotto casa alle quattro del mattino, vivendo con pochi soldi, godendo dell’ospitalità della comunità del Village. Una storia mai facile, sin dall’inizio, disapprovata dalla madre e dalla sorella maggiore Carla, carica di difficoltà emotive per due che erano poco più che ragazzini: “Eravamo tornati a casa ubriachi, dopo una lunga notte e lui era molto ubriaco. Con un gesto impacciato perse il portafogli dalla tasca posteriore ma fece cadere il contenuto in terra ed è allora che vidi il suo vero nome. Stavamo ridendo, ma quando presi la cartolina cambiai umore. E così ti chiami Zimmerman alla fine? E perché non me l’hai detto? Ero cresciuta col maccartismo, quando bisognava guardarsi dai ficcanaso e ci ero abituata. Ma d’improvviso il fatto che non fosse stato onesto con me mi fece arrabbiare. Ero ferita. (…) L’estate successiva mentre ero in Italia mi scrisse lettere in cui si raccontava con una onestà e chiarezza che non mi sarei mai aspettata dopo tanto tempo insieme”.

Poi il viaggio in Italia, per studiare a Perugia, con Dylan che quasi ogni giorno le scrive lettere commoventi nella loro semplicità adolescenziale e con un messaggio unico: “Mi manchi”. Quando torna, dopo alcuni mesi, trova un Village diverso, che la guarda malamente perché fidanzata dell’astro emergente. I conti cominciano a non tornare e finiranno per non tornare più, in un periodo di tempo che coincide con la decisione di lasciare il suo appartamento, nell’agosto del 1963, fino a metà del 1965 con una sorta di relazione aperta. Ma ormai il ragazzino di West 4th Street è una star e lei confinata in un angolo, mentre altre donne si mettono di mezzo e lui è sempre più indecifrabile. Finì tutto senza un addio e con un aborto: “Bob ha sempre fatto quello che riteneva giusto. Raramente si piegava a bisogni o richieste provenienti dall’esterno. Andava dove voleva andare, anche quando per farlo doveva allontanarsi dal pubblico, dai fan, dagli amici e dalle amanti. Non rendeva la vita facile a nessuno, nemmeno a se stesso”.

Nel 1972 Suze Rotolo sposò un italiano, Enzo Bartoccioli, ebbe con lui un figlio nel 1980 e morì di tumore nel 2011. Non abbandonò mai la politica, nel 2004 era fuori della convention del Partito repubblicano a protestare contro George W. Bush. Pare che Bob Dylan abbia aiutato Suze quando l’appartamento in cui viveva con il marito finì bruciato, trovandole una nuova casa. In quell’incendio bruciò anche quel cappottino che portava nella foto di copertina di “The Freewheelin'”: “Il nostro appartamento era sempre freddo e io avevo addosso due felpe e un cappotto. Mi sentivo una salsiccia italiana e, ogni volta che riguardo quella foto, penso che sembro grassa”. Meravigliosa Suze, per sempre.