“Highbrow, lowbrow, chasing illusion, chasing death, the great white whale, white as polar bear, white as a white man, the emperor, the nemesis, the embodiment of evil. The demented captain who actually lost his leg years ago trying to attack Moby with a knife…”.
La voce di Bob Dylan scorre profonda e melodiosa, con un ritmo incalzante e cadenzato, con battiti precisi, come se stesse leggendo una poesia e non un discorso. La sua voce è così: è ritmo, è musica, è il vecchio schiavo fuori della capanna dello Zio Tom che intona il blues senza accompagnamento strumentale, è l’ebreo errante che legge i salmi nelle sinagoghe di tutto il mondo, è il soldato sudista lacero e sconfitto dopo la guerra civile, è Omero che recita l’Odissea, è il contadino hillbilly seduto tra le rovine della sua fattoria al tempo della grande depressione.
L’abbiamo sentita, la voce di Bob Dylan, cantare le sue canzoni, canzoni che spesso sono “raccontate” più che cantate. Questa è la sua voce, che canti o che parli. Una voce mistica, vecchia come è vecchio il mondo. Provate a metterci sotto una base ritmica elettronica, sentirete l’unico vero rapper al mondo che declama e non ferisce le orecchie andando fuori tempo. D’altro canto il primo brano autenticamente hip hop lo scrisse lui, un bianco del Minnesota, nel 1965, Subterranean Homesick Blues. La sua voce è rock’n’roll allo stato puro, ma è anche William Shakespeare che legge passi dell’Amleto ai suoi attori.
Qualcuno ha scritto che con l’agognata consegna dello speech, il discorso per l’Accademia del premio Nobel, “è finita l’avventura” che dal dicembre dello scorso anno ha regalato divertentissimi capitoli di snobismo culturale da parte di critici invidiosi o giornalisti incompetenti fermi al Festival di Sanremo. Si sono lette tante banalità e tante cattiverie, ma con Dylan è sempre stato così. O entri nel suo mondo accettando la sua sfida o ne resti fuori, ma senza commentare: “per vivere fuori della legge devi essere onesto”, il che significa non tenere il piede in due scarpe come facciamo tutti. Lui è sempre stato dall’altra parte.
Ha consegnato il discorso di laurea in letteratura senza andare alla cerimonia, ha intascato gli oltre 800mila euro previsti, sono finite le diatribe, pare. Ora tutto è compiuto. Ma nel modo migliore e più entusiasmante. Ci ha lasciato il suo epitaffio eterno, le parole da incidere sotto al suo personale Mount Rushmore quando se ne sarà andato, il senso di una vita spesa tutta alla ricerca della Bellezza (“un giorno sarà mia” profetizzò in una canzone, ma quel giorno, speriamo, sia ancora lontano). Il discorso doveva essere ovviamente letto, non bastava una lettera, e lui lo ha letto, registrandolo magari a casa sua con il delicatissimo accompagnamento di un pianoforte che incrocia accordi jazz e ci ha trasportati tutti al Cafè Trieste di San Francisco dove Allen Ginsberg e Jack Kerouac si scambiavano i microfoni leggendo i loro scritti accompagnati da musicisti jazz.
E cosa ci dice in questo discorso? Ci parla di ulna odissea tutta americana, anche se poi citerà quella originale: “Possiamo vedere solo la superficie delle cose, possiamo interpretare quello che giace sotto in qualunque modo preferiamo. Gli uomini della ciurma camminano sul ponte ascoltando le sirene e gli squali e gli avvoltoi che seguono la nave. Leggenda da teschi e volti come se leggessi un libro. Ecco una faccia, te la sbatto davanti, leggila se ci riesci”. E’ una sfida, la sfida della vita.
“Devo cominciare con Buddy Holly” dice: “dal momento in cui lo ascoltai per la prima volta, percepii un legame, mi sentii connesso a lui come al fratello più grande che non avevo mai avuto.[…] Lui era l’archetipo“. L’importanza del modello in cui identificarsi da cui poi, se coltivato, scaturisce il proprio Io più profondo, l’archetipo junghiano, il prototipo universale per le idee attraverso il quale l’individuo interpreta ciò che osserva ed esperimenta. È l’immagine primordiale dell’inconscio collettivo. Qualcosa che oggi nessuno è più in grado di trovare, perduti come siamo nell’annichilimento dello spirito e nella fossa di un pensare e di un apparire uguale per tutti, dove ognuno si accontenta del suo spazio come un cane della sua cuccia e dove lo spirito della ricerca sembra perduto..
Buddy Holly e il rock’n’roll, Leadbelly e il blues e poi i libri letti ai tempi del liceo che gli sono rimasti dentro. Tutto insieme, senza distinzioni di serie A e serie B. Ne cita tre, in modo approfondito Moby Dick, Niente di nuovo sul fronte occidentale e l’Odissea, ma anche “Don Chisciotte, Ivanhoe, Robinson Crusoe, I Viaggi di Gulliver mi hanno dato un modo di guardare la vita, la comprensione della natura umana e un metro per giudicare le cose.[…] Questi libri entrarono nelle mie canzoni, inconsapevolmente”. L’importanza dell’educazione, della trasmissione da adulti ai ragazzi, l’esaltazione della curiosità innata della nostra adolescenza che va coltivata e non censurata.
L’orrore della guerra che forgia la coscienza umanitaria e pacifista, e che fa passare dall’adolescenza alla consapevolezza della maturità, che il mondo può essere un luogo cattivo una volta usciti dalla zona di conforto che è il piccolo mondo della famiglia: “Niente di Nuovo sul fronte occidentale” è un libro che ti fa perdere il tuo stato di bambino: una volta eri un giovane innocente con il sogno di diventare un pianista, amavi la vita e il mondo; ora devi invece sparare per non essere eliminato.[…] Qualche generale o businessman ha deciso questa guerra e tu devi fare il lavoro sporco.[…] Quando finii il libro, mi dissi che non avrei più letto un romanzo di guerra e così ho fatto“.
“Ulisse torna migliore grazie alle sue disavventure […] ha imparato a controllare i suoi istinti e a canalizzare la sua rabbia nel momento giusto. Alla fine un uomo che non era nessuno riesce a sconfiggere tutti, anche il più forte, a sedersi con sua moglie e raccontare la sua storia“: è una visione molto americana quella che ha dell’Odissea Dylan, ma ci sta, è anche la consapevolezza del realismo quotidiano: “Le cose che succedono ad Ulisse, a livello metaforico, sono quelle che succedono anche a te: qualcuno ti mette della droga nel bicchiere, a volte condividi il letto con la donna sbagliata, anche tu a volte sei incantato da voci “magiche”, nel sonno, anche tu vieni da lontano e a volte il vento è contro di te“.
Cosa centra tutto questo con la canzone, chiede Dylan: “Cosa significano tutte queste storie che ho raccontato? Cosa significano questi libri che ho letto? Io e tanti altri cantautori siamo stati influenzati da questi stessi temi e possono significare tante cose diverse. Una canzone viene a te: e questo è l’importante; non devo sapere per forza cosa significa qualcosa, ho scritto di tutto nelle mie canzoni e non mi preoccupo di cosa significhino Se Melville ha messo l’Antico Testamento, riferimenti biblici, teorie scientifiche, la dottrina protestante e tutta la conoscenza sul mare in una sola storia, non devi preoccuparti neanche tu rispetto a cosa questo significhino le canzoni. Suona bene ed è questo che io voglio“. Alla faccia degli analizzatori compulsavi dei testi delle canzoni, o di chi ti dice: “Ma non capisco il senso della canzone”. E il senso della vita?
Alla fine arriva la stoccata decisiva, per tutti coloro che credono ancora siano solo canzonette: la canzone, quella rock, è la letteratura moderna. Meglio dire, purtroppo, che ha svolto questo ruolo per tutta la seconda metà del novecento, e che adesso sta morendo per incapacità delle nuove generazioni a fare altrettanto. I tempi sono cambiati e si sono imbastarditi, o semplicemente una forma di espressione ha fatto il uso tempo. Ma per chi ha avuto la fortuna di crescere tra agli anni 60 e i 90, la canzone rock è stata il nostro Moby Dick, il nostro Niente di nuovo sul fronte occidentale, la nostra Odissea. Noi lo avevamo capito già allora, gli educatori no. E pazienza. Siamo venuti su lo stesso, probabilmente meglio di loro: “Ecco cosa sono le canzoni, le nostre canzoni sono vive nel mondo dei vivi; ma le canzoni non sono letteratura. Devono essere cantate non lette. Le parole delle commedie di Shakespeare devono essere recitate sul palco.
Proprio come le parole delle canzoni devono essere cantate, non lette sulla pagina. E mi auguro che alcuni di voi abbiano la possibilità di ascoltare queste parole come debbano essere ascoltate: in concerto oppure su disco. Torno ancora a Omero che diceva: “Canta, o Musa, e attraverso me narra la storia”.
Siamo lo strumento di comunicazione di qualcosa di più grande che ci supera da ogni parte: la storia e il destino, il cuore dell’uomo e il suo desiderio. Mai premio Nobel si è espresso, forse, in modo più umile.