Da quarant’anni Vasco Rossi lo sa sempre meglio, che è un pover’uomo come tutti, ma a volte gli succede qualcosa che lo prende e lo porta via: chiamalo lampo di genio, chiamalo canzone. Certo, se ascolti certe canzoni, ti rendi conto di una caratteristica inconfondibile dell’arte: è sempre più grande di chi la produce. Puoi pensare quel che vuoi dell’uomo Vasco Rossi, che sia un vecchietto un po’ sfasato, o con un pregiudizio duro a morire condannare le sue abitudini; ma, ti piaccia o no, Sally l’ha scritta lui, non tu; Liberi liberi l’ha scritta lui, non tu; Dannate nuvole l’ha scritta lui, non tu. E dentro quelle canzoni c’è qualcosa di vero, che è di Vasco e che è di tutti: personale e universale, avrebbe scritto Ungaretti. “Io grazie alla musica ho scoperto di non essere ‘strano’ come credevo, raccontavo le mie debolezze e trovavo migliaia di persone come me. Dentro siamo più simili di quanto vogliamo sembrare indossando le nostre maschere».
Chi sente Vasco ci trova dentro le proprie debolezze, la propria rabbia, le proprie ferite. Perfino le proprie maschere. Perché è davvero strano quando, durante il concerto, migliaia di persone cantano “noi parliamo spesso sì, ma è così: siamo soli!”: 220mila solitudini affiancate, gridano Siamo soli, rubando le parole a uno per cui “conta soltanto la mia, di solitudine”. Magari c’è uno stadio intero che mentre canta non ci pensa, ma quando finisce Rewind Vasco toglie la maschera della rockstar e la sua faccia d’un tratto si fa serissima, quasi risoffra cantando ogni parola che ha scritto.
“Quante volte ho pensato nella vita: voglio fare quello che mi va! Poi le cose mi sfuggivan dalle dita e arrivava la realtà”: in quattro versi c’è Il fu Mattia Pascal, e le nostre eterne illusioni che la realtà prontamente smentisce. “Ogni volta che non guardo in faccia a niente e ogni volta che dopo piango”: un capolavoro di anafore e di reticenza, in cui manca la principale (sono tutte temporali), ma ognuno sa come riaffiora il cuore “ogni volta che qualcuno si preoccupa per me, ogni volta che non c’è proprio quando la stavo cercando”.
E ognuno si identifica con Sally, che “è già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza, per ogni candida carezza data per non sentire l’amarezza”: si pagano a prezzo alto anche i più nobili tentativi di sedare il pianto che ci stringe alla gola, “e alla fine non si piange neanche più”. Invece no, “forse davvero ci si deve sentire alla fine un po’ male”: Vasco non edulcora, scrive ruvido, e per questo può gridare (mille volte più credibile della Mannoia) che “forse la vita non è stata tutta persa, forse qualcosa si è salvato!”.
Quante pagine sul nichilismo bisognerebbe scrivere per pareggiare la folgorante intuizione di Stupido hotel? Quando “non sei qui con me”, “farmi la barba o uccidere, che differenza c’è?”. La conosciamo tutti, quell’insensatezza che non trova parole: Vasco l’ha catturata al volo mentre passava, e l’ha tradotta in parole. Perché “le canzoni son come i fiori, nascono da sole, sono come i sogni; ed a noi non resta che scriverle in fretta, perché poi svaniscono e non si ricordano più”.
Cosa importa quel che dirà o farà un attimo dopo? L’ha descritta lui, un’Anima fragile in frantumi, di chi si ritrova lontano “ormai da tutte quelle situazioni che ci univano, da tutte quelle piccole emozioni che bastavano”. Ora Non basta niente: “Ogni tanto guardo intorno a me, a quello che c’è, se poi davvero è proprio tutto così, se è tutto qui: ho bisogno di credere che c’è qualcosa più grande di me, anche se non capisco però neanche cos’è”. Tu guardi le stelle, guardi il mare, guardi le cose, e quelle parole ti tornano in mente, le senti tue. E anche quando invece guardi la televisione, e non sai come dire… ecco, è “come l’impressione che mi stessero rubando il tempo e che tu, che tu mi rubi l’amore”.
Forse ci sei cascato anche tu, o puoi cascarci, con una più Brava di te, che è “riuscita a farmi cadere / con la tua logica di calze nere”. Ma quando Gabri si toglie calze e tutto, capisci cosa non è la pornografia, proprio mentre ti scandalizzeresti che “con le mie mani tra le gambe diventerai più grande”: altro che le smancerie di Paolo e Francesca! i materialisti sono più sani degli spiritualisti, e le parole dirette più sincere di quelle melense, lasciano spazio ad amori più veri. A quelli, per intenderci, a cui riservi una Standing ovation, a cui mandi “subito un messaggino, era: per te vorrei essere migliore”. A quelli per cui non rallenti la Vita spericolata, che è la vita di tutti noi che amiamo molto e che per questo “non ci sappiamo limitare”. Quella, per esempio — come suggeriva una vecchia pubblicità —, delle mamme con i figli piccoli: “una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai”.