I Dinosaur Jr sono, assieme ai Sonic Youth, amici e per breve tempo compagni d’etichetta, il gruppo più importante del cosiddetto “rock alternativo”. Che è poi una sigla che oggi, molto probabilmente, non ha più nessun senso, ma che risulta ancora oggi comoda da usare, per identificare tutta quell’ondata di band che, più o meno dalla seconda metà degli anni ’80, iniziò a suonare questa musica incorporando e nello stesso tempo stravolgendo la proposta dei classici dei decenni precedenti. 



Nel tempo è poi successo di tutto, sono nati un sacco di gruppi diversi tra loro e soprattutto è esploso il Grunge, che di quel periodo ha rappresentato il lato più esposto dal punto di vista mediatico. Eppure, se volessimo riportare la storia al suo vero punto d’origine, dovremmo recarci ad Amherst, nel Massachusetts, dove tre ragazzi di nome J Mascis, Lou Barlow ed Emmet Murphy, diedero vita ai Dinosaur Jr, subito dopo lo scioglimento di una precedente band, i Deep Wound, nella quale i primi due avevano militato per qualche anno. 



Il monicker, piuttosto curioso, è per lo più frutto del caso, figlio di una mezza causa intentata ai tre da un ex membro dei Jefferson Airplane, che sosteneva di aver utilizzato per primo il nome Dinosaur per un suo progetto da poco iniziato. Parecchio irritato dalla situazione, Mascis decise di inserire un “Jr” per evitare polemiche e a quanto pare la cosa è non solo servita allo scopo ma ha anche reso il nome del gruppo decisamente più interessante. 

Certo, non stiamo parlando di una band famosa, che vende milioni di dischi e fa tour sold out negli stadi, eppure ci sono proprio loro alla base di tante delle cose che oggi vanno per la maggiore. È totalmente attribuibile a loro quella sintesi perfetta e assolutamente innovativa per l’epoca, tra il “rumore” e la melodia. Quelle chitarre sparate a volumi assurdi, ultra distorte e il più delle volte arricchite da Fuzz e dal Wha Wha, unitamente a linee vocali malinconiche e perfettamente memorizzabili, sono figlie della grande passione di J per i Cure e Neil Youn, nonché della sua passata militanza Hardcore (i Deep Wound sono stati esemplari da questo punto di vista). 



E tutto questo ha creato un marchio di fabbrica che oggi sembra scontato e magari anche leggermente fuori moda, in un’epoca in cui le chitarre, lo diciamo da tanto tempo, non possono più essere considerate lo strumento principe della musica rock. 

Dal 2005 i tre hanno ripreso a suonare insieme, dopo che per una quindicina d’anni almeno, il marchio Dinosaur Jr era stato portato avanti dal solo Mascis (Murph era però tornato, ad un certo punto), con una serie di dischi di buon livello ma sicuramente lontani dalla folgorante bellezza del trittico iniziale: “Dinosaur”, “You’re Living All Over Me”, “Bug” (da ascoltare e riascoltare all’infinito, se si vuole davvero capire una fase storica fondamentale come quella). 

Le cose registrare da quel momento in avanti, al di là di quelli che possono essere i gusti personali, hanno standardizzato la formula a volte in maniera esagerata ma non hanno per niente abbassato il livello, cosicché si può dire senza nessun timore che questa sia forse sì, una band del passato, che ripropone formule del passato, ma che lo fa ancora con una passione e una maestria che ce la rendono quanto mai presente e vicina. 

Personalmente li aspettavo da un anno. Nel 2016 li avrei dovuti vedere al Primavera Sound di Barcellona ma poi gli organizzatori avevano avuto la brillante idea di sovrapporli ai Radiohead e così me li ero persi. Non mi ero dispiaciuto molto, perché sapevo che di lì a qualche giorno sarebbero venuti a Milano. Peccato solo che J Mascis ebbe poi problemi di salute e che quindi quel concerto fu annullato. 

Oggi, finalmente, la nuova leg del tour di supporto a “Give a Glimpse of What Yer Not” li riporta di nuovo da noi, sempre nella piacevolissima cornice del Carroponte di Sesto San Giovanni, la casa perfetta per la musica estiva in Lombardia. 

Sta seriamente minacciando pioggia quando arrivo sul posto e la cosa è grave, perché questo posto non si è ancora dotato di un palco a prova di intemperie e in passato diversi show sono stati annullati anche a causa di brevi temporali. 

I nostri timori paiono venire confermati quando, pochi minuti dopo l’inizio del concerto, le prime gocce cominciano a cadere, via via sempre più forte, e in breve tempo ci troviamo inzuppati. La band, per fortuna, continuerà a suonare fino alla fine senza scomporsi e da parte sua, il pubblico dimostrerà una tenuta e una dedizione notevole, dato che nessuno si muoverà dal proprio posto e rimarranno tutti tranquilli ad ascoltare e a ondeggiare a ritmo di musica. 

I tre sono in forma, pacati e indolenti come al solito, si lanciano in un pezzo dopo l’altro senza parlare, senza salutare, facendo solo qualche piccolissima pausa per sistemarsi, guardarsi per ricordarsi in che modo attaccare la canzone successiva e poi ripartire. 

I volumi non sono alti come avremmo immaginato, la chitarra di J non sovrasta più gli altri strumenti come faceva nei primi anni e in generale i suoni sono nitidi e ben bilanciati, con la voce leggermente dentro il mix generale, scelta che bene o male è tipica del gruppo anche se ogni tanto ha penalizzato la resa di qualche brano. 

Tecnicamente parlando, c’è poco da dire: la prova offerta dal trio è maiuscola. Murph è mattatore assoluto con la sua batteria, non tiene quasi mai alti i ritmi ma è sempre dinamico e preciso e le volte in cui accelera è ancora devastante come agli esordi. Lou è funambolico ed esagitato, indubbiamente il più divertente dei tre da guardare, per come massacra il basso e si dedica ai cori e ogni tanto a qualche brano da solista, perennemente coperto dalla sua zazzera di capelli neri. 

E poi J Mascis, che è ormai un personaggio, un’icona, coi suoi lunghi capelli grigi e la sua aria di uno che è contento di stare lì ma a cui, allo stesso tempo, importa ben poco di quello che succederà. La sua voce impastata e indolente è da sempre un suo marchio di fabbrica ma questa sera l’impressione è che ne avesse un po’ meno del solito (il falsetto sulle note alte però ha funzionato bene); la sua chitarra, invece, è magnifica: i suoi riff sono semplici ma straordinariamente personali, soprattutto quelli dei vecchi classici hanno ormai un’impronta inconfondibile ma è soprattutto quando si lancia nei suoi celebri, lunghi assoli che si raggiunge il massimo del godimento. Al di là del fatto che un solo di chitarra, nel 2017, è prezioso come acqua nel deserto, è proprio in questo momento che si capisce come, al di là della spigolosità e della durezza che normalmente è associata a questo act, il nostro sia un chitarrista non solo tecnicamente dotato, ma anche melodicamente sensibile. 

È un concerto breve (circa un’ora e un quarto) e piacevolmente uniforme, quasi monocorde, nonostante la scaletta abbia spaziato in lungo e in largo per il corposo repertorio dei nostri. L’impostazione, come già detto, non è più così estrema e di conseguenza questa sera è soprattutto la melodia a prevalere sul “rumore”. Ci sono gli immancabili brani del nuovo album (che è ormai uscito da un anno): “Goin Down”, “Lost All Day”, col suo efficacissimo riff springsteeniano, le malinconiche “Love Is…” e “Knocked Around” si confermano degli ottimi pezzi e funzionano benissimo accanto alle cose più vecchie. 

Fa anche un certo piacere notare come Mascis non abbia alcun timore a riproporre cose che non aveva originariamente registrato con questa formazione: il concerto, emblematicamente, inizia con “Thumb”, che proviene proprio dal primo disco post scioglimento. Anche “The Wagon” e “Start Choppin” escono benissimo ma sono anche la dimostrazione del fatto che sia lui l’unica mente dietro al songwriting del gruppo. 

E poi, ovviamente, i vecchi classici: splendida è l’accoppiata “Feel The Pain/Little Fury Things”. La prima proviene da “Without a Sound”, per chi scrive il loro più bel lavoro dei ’90, ed è il brano che forse ha avuto più successo nelle radio, forse grazie anche al periodo in cui è uscito. Il secondo è uno dei pezzi simbolo di questa band, quello che ne incarna più di tutti il trademark sonoro e uno di quelli che più è rimasto nei cuori dei fan. Sono due bellissime esecuzioni, rese ancora più affascinanti dal fatto che sono arrivate nel momento di massima intensità della pioggia. 

Nel finale, arrivano poi altri brani immensi come “Budge”, “Freak Scene” e soprattutto “Gargoyle”, coi suoi magnifici fraseggi e il suo assolo che sembrava non finire mai. Una coda straordinaria, con Mascis che fa il diavolo a quattro, gli altri due che lo seguono imperterriti e poi, improvvisamente, la fine, all’unisono, senza che nessuno abbia mai minimamente guardato gli altri, come per una sorta di istintività data da decenni a condividere lo stesso palco. 

Il congedo è breve, solo un cenno della mano e un “Hello” appena smozzicato. Poi, dopo appena un minuto, sono di nuovo lì, tra le grida di incitamento delle poche centinaia di presenti che, va ribadito, si sono davvero fatti onore. 

Come da copione, ecco arrivare la celebre cover di “Just Like Heaven” dei Cure, interrotta bruscamente come nella versione in studio e sfociata subito in una “Sludgefeast” da manuale, che chiude un concerto forse troppo breve ma talmente bello e intenso da rendere inutile ogni lamentela. 

I Dinosaur Jr ci hanno ricordato stasera, per l’ennesima volta, che chi ha davvero fatto la storia del rock non per forza passa dalle radio ed è sulla bocca di tutti. Ed è stata anche un’occasione buona per ribadire che si può ancora ascoltare buona musica, se si sa dove andarla a cercare.