Chitarre. Pare che se ne vendano sempre meno. Così che quelle che rimangono in giro invecchiano, insieme ai loro proprietari. Eppure nell’era della musica liquida, dei dischi che non si comprano più, dei sold out per gli show di vecchie stelle del rock che si trovano davanti solo i nuovi radical chic, disposti ad acquistare biglietti a cifre improponibili – perché l’importante è poter dire d’essere stati presenti all’evento – ci sono ancora isole di buona energia, luoghi dove ritrovare suoni e voci sincere.



Le chitarre, questa volta, sono quelle di Kurt Vile, che passa anche da Milano, nella bella cornice dei giardini della Triennale, per una tappa del suo tour europeo. Ne cambia una ad ogni brano, e le suona con la stessa passione che mette nel cantare i testi delle sue canzoni. Lo stile richiama fortemente quello di Neil Young, anche se questo trentasettenne di Philadelphia è stufo di sentirselo dire; ma quando imbraccia la chitarra acustica e ci si aggroviglia intorno, è quasi impossibile non pensare al maestro canadese. 



Kurt sale sul palco in perfetto orario, sorprendendoci tutti, ancora seduti ai tavolini con la nostra birra in mano, e si getta immediatamente in Jesus Fever, tratto da Smoke Ring For My Halo, l’album che, nel 2011, lo rese noto al pubblico dopo alcuni lavori passati abbastanza inosservati. Un brano dal riff accattivante e dalle liriche misteriose, che sembrano richiamare allo stesso tempo immortalità e finitezza della vita, con quella frase – “I’m already gone” – che continua a ricorrere lungo la canzone. “Non c’è ragione per correre, quando sono un fantasma” canta, fino ad arrivare a quella strofa finale, ironica, che dice: “se non fosse stata registrata, potresti scappare anche da questa canzone, ma io me ne sono già andato”. Per tutto il concerto sarà così. 



Ascoltare un indie-rock singer brillante, vederlo suonare e, nel contempo, provare ad entrare nella sua mente, coglierne le espressioni del volto, nascosto dai lunghi capelli e dalle luci (poste ad illuminare il centro del palco, e che abbagliano malamente buona parte del pubblico), ma che, quando si lascia scorgere, appare grato e sorridente.  

I’ m An Outlaw, secondo brano del concerto, vede Kurt al banjo. Tratta dall’ultimo disco – B’lieve I’m Goin’ Down, del 2015 – è una ballata elettroacustica dal ritmo incalzante, con un riferimento, nel primo verso, alla Flannery O’Connor di Wise Blood. “Sono un fuorilegge – canta Vile – sull’orlo dell’implosione, solo in un angolo, in mezzo alla folla, e che, lentamente, non è diretto da nessuna parte”. 

Si fatica, nelle liriche di questo cantante, a distinguere quanto sia finzione narrativa e quanto, invece, autobiografia, anche se, poco tempo fa, ebbe a dichiarare che “la vita è mortale, fatta di conseguenze e di ricompense”; esse “a volte ti abbracciano, altre volte ti mettono KO – aggiunse – capita a tutti, ma forse a me succede di andare più giù di altri”. Come a dire che gli artisti, notoriamente più sensibili, subiscono maggiormente il contraccolpo di ogni oscillazione. 

Così anche le canzoni tratte dall’ultimo disco e suonate questa sera ci conducono su un piano inclinato, dove scivolano, ad una ad una, le mille fatiche dell’esistenza. Non importa se il ritmo è vivace, come nell’incalzante Dust Bunnies (“pensi di essere stanco e metti la tua faccia al posto della mia / Ci scambiamo i volti e vedo che sei stanco / ma è difficile pensare quando la tua mente è schiacciata”), o nella melodica Pretty Pimpin’ (“Mi sono svegliato stamattina / senza riconoscere l’uomo allo specchio / poi scoppiando a ridere, mi son detto: stupido, sei proprio tu!”), o se il clima si fa più intimo come in That’s Life, Tho (“questa è la vita, così triste e vera”), o in Wild Imagination (“Ti sto guardando / ma è solo una foto, così torno indietro / e non è neppure questo, solo un’immagine su uno schermo”), l’ultima canzone prima dei due bis finali. Lo sguardo sembra disilluso, trascinato verso orizzonti di sola umana e stanca resistenza. Forse è per questo che, all’inizio di Freeway – sola voce e chitarra acustica insieme ad un altro brano, Runner Ups, a metà dello show – Kurt blocca il pubblico che vorrebbe battere le mani a tempo sugli accordi. “Don’t do it!”, sussurra al microfono, quasi a dire che i suoi sono racconti di dramma, vita vissuta che ha bisogno di essere ascoltata con intensità, senza leggerezza. 

Le canzoni che Vile presenta in concerto – poche variazioni nelle scalette delle prime date del tour – sono tutte di buon livello, supportate dai suoi The Violators, che forniscono una base ritmica essenziale ma efficace. Pochi fronzoli: tutto ruota intorno ai suoi accordi, al suo fingerpicking, all’uso sapiente e dosato della leva della chitarra elettrica e dei pedali, ma francamente basta e avanza. I ritmi e le melodie sono avvincenti, conquistano gli spettatori, anche quelli che conoscono poco l’artista americano. 

Nella scaletta del concerto di Milano ci sono ancora Waking On A Pretty Day, title track del penultimo album, e poi Goldtone, Girl Called Alex e KV Crimes  sempre dallo stesso disco. Waking On A Pretty Day è davvero accattivante, si fa fatica a restare fermi, anche se i temi sono sempre gli stessi: “svegliarsi in una bella giornata / senza sapere perché andarsene via / è difficile spiegare / il mio amore in questo stordimento”.

Free Train, prima della già citata Wild Imagination è una bella cavalcata chitarristica che ci fa capire che il concerto sta per giungere alla sua conclusione. Per i bis finali Vile sceglie Baby’s Arms, e l’acustica He’s Alright, che chiude lo show. “Non sarò mai solo – canta Kurt nella prima – perché è tutto nelle mani della mia piccola / scintillanti, scintillanti pietre segrete / nelle mani della mia piccola”. Kurt saluta, sorride con quel suo viso dalle guance un po’ paffute finalmente più visibile di prima, cerca goffamente l’uscita del palco e si allontana. Sembra felice. 

La gente se ne va e il giardino della Triennale si svuota, a poco a poco. Ci giriamo ancora una volta, verso il palco, e all’improvviso lo vediamo lì, appoggiato ad una transenna: Kurt, nella penombra sta guardando il suo pubblico, lo sguardo nascosto dai suoi folti capelli lunghi. Recentemente aveva dichiarato: “c’erano tempi in cui una band poteva fare un sacco di soldi in un attimo, ma adesso il business è cambiato. Riesco a mantenere la mia famiglia e per me è già un successo. Continuerò a fare dischi dopo i quarant’anni e spero di mantenere quel contatto con la realtà che spesso le persone ricche hanno perso”. Basterebbe già questo, stasera, per ripagare il costo del biglietto: Kurt ci ha regalato molto di più di una manciata di ottime canzoni: ci ha fatto sbirciare negli angoli nascosti del suo cuore. Di questi tempi, non è davvero poco. Anzi, forse è proprio tutto.