Come sarà il nuovo disco degli Arcade Fire lo sapremo solo il 28 luglio. Per il momento, l’unica certezza che abbiamo è che, dal vivo, il gruppo canadese è ancora una perfetta macchina da guerra e che un loro show ha come sempre lo stesso carattere di confortevole famigliarità e senso di euforia di una festa tra amici in cui ci si conosce tutti e si sa che ci si divertirà.
Non che fosse proprio necessario andarlo a verificare. Negli anni sono riusciti a dividere pubblico e critica con le loro uscite discografiche ma i concerti hanno messo ogni volta d’accordo tutti.
In breve, la situazione è questa: “Everything Now”, il loro quinto disco in studio, uscirà in tutto il mondo il 28 luglio. Nel frattempo la band, come si usa in questi tempi di ascolto bulimico ma sempre più distratto e discontinuo, ha deciso di far uscire diversi brani in anticipo, separati di qualche settimana l’uno dall’altro. Hanno iniziato il 1 giugno con la title track, che è stata anche suonata dal vivo in anteprima durante un concerto segreto al Primavera Sound di Barcellona. Ne sono seguiti altri tre, mentre un quarto ha iniziato a fare capolino da qualche giorno nelle scalette dei concerti. Difficile che ora ne escano altri ma ad ogni modo, avendo a disposizione praticamente metà disco, qualche idea ce la saremmo anche fatta.
Meglio non dilungarsi, comunque: a breve ne dovremo scrivere ancora e non è il caso di dire le stesse cose due volte. Due sole considerazioni, telegrafiche: la prima, che come al solito hanno fatto le cose in grande, cercando per l’ennesima volta di rinnovare il proprio sound, affidandosi a due produttori eccellenti come Steve Mackey (Pulp, e non scrivo “ex” perché spero sempre che si riformino) e Thomas Bangalter, che è forse più conosciuto per essere uno dei due Daft Punk.
La seconda, è che come al solito, appena le prime note del primo brano hanno cominciato a circolare in giro, si sono levate le voci di protesta di quelli che “Eh ma il primo disco era meglio!”. Ora, questa storia che gli Arcade Fire abbiano realizzato un capolavoro all’inizio della loro carriera e poi siano andati avanti senza mai realizzare nulla che fosse all’altezza di “Funeral”, deve veramente finire. Ognuno ha i suoi gusti, per carità, ma poche volte mi è sembrato che questa posizione fosse veramente lucida: spesso e volentieri nasconde invece una rifiuto di accettare il cambiamento dei propri idoli o, più semplicemente, uno snobismo intellettuale che fa dire: “Io c’ero all’epoca e so cosa ho visto.”.
Ma non è importante, adesso. Quel che importa è raccontare questo concerto, il primo dei due che Win Butler e soci hanno tenuto nel nostro paese (il secondo sarà a Firenze). Li avevo già visti un mese e mezzo fa a Barcellona e sapevo quindi cosa aspettarmi. “Reflektor” è stato un disco dove il ritmo ha svolto una funzione fondamentale, percussioni ed elettronica si ritagliavano una bella fetta e dal vivo tutto questo aveva una ricaduta non indifferente sulle loro esibizioni, che erano divenute più festaiole, pur senza mai perdere di vista il lato più serio della loro musica.
Con il nuovo lavoro che sembra bene o male incamminato nella stessa direzione, l’impianto generale dello spettacolo non è cambiato e, anzi, la scaletta è a grandi linee rimasta la stessa di tre anni fa; forse anche perché questo non è ancora ufficialmente il tour del nuovo disco ma solo un breve giro di anticipazione (si partirà davvero solo quest’autunno in America).
L’Ippodromo di San Siro è una location interessante per i concerti estivi: negli anni è stata utilizzata poco ma risulta funzionale, senza essere troppo dispersiva, sufficientemente ombreggiata (anche se non occorre arrivare presto) e ben fornita di generi di conforto, almeno nell’area esterna. I dati che ho raccolto parlavano di 6.500 persone presenti e, seppure si tratti di un numero perfetto per godersi quel che accade in sufficiente tranquillità, sono ancora troppo poche per un gruppo come loro. Ma che dobbiamo farci? L’Italia è così. È il paese dove tutti vanno a vedere gli U2, che sono una band in declino ma che sono “famosi” (e quindi il selfie e il post su Instagram valgono di più) e poi snobbano questi, che sono ormai una delle realtà più importanti in circolazione nel panorama rock.
Cambiamo argomento che è meglio. I recenti attentati hanno ormai influito sulle procedure di sicurezza e anche qui, come già successo nelle precedenti adunate all’aperto a cui ho partecipato, i controlli sono ferrati; forse anche un po’ troppo, visto che mi è stato individuato e sequestrato addirittura l’accendino che tenevo ben nascosto in un luogo, per così dire, “appartato”. Ma va bene così, forse. In fondo dicono che è per la nostra incolumità ed è inutile negare che, dal punto di vista psicologico, certe operazioni hanno un peso non indifferente.
Si comincia alle 21.30 sulle note di “Everything Now” e quando dopo il breve intro la band si lancia nel brano, il pubblico esplode e fa capire di essere sin da subito in perfetta sintonia con quel che sta vivendo.
La canzone dice una cosa molto semplice: siamo in un mondo dove il progresso tecnologico e l’onnipresenza della rete sono arrivati a farci credere che possiamo avere qualunque cosa in qualunque momento ma è una posizione falsa, che alla lunga ci impedisce di goderci la vita.
E come al solito fa impressione notare come siano capaci di esprimere un disagio così vero e di richiamarti a ciò che è reale, attraverso una canzone che trasuda energia, ottimismo, voglia di ballare. Perché diciamocelo: questo album, per quel che si è sentito, è un tentativo di voler diventare una band da stadio. Che ci riescano o meno, che sia un bene o meno, non è questo il problema, non ora. Ma questo è un dato innegabile e occorre dunque registrarlo il prima possibile.
La formazione con cui si presentano è la stessa: ci sono Win Butler, sua moglie Regine Chassagne, il fratello di Win, Will, Richard Perry, Tim Kingsbury e Jeremy Gara. Dire che cosa suonano è abbastanza superfluo perché, salvo l’indicazione che Win e Regine sono le due voci principali e che Jeremy è il batterista, tutto il resto è soggetto a perenne divenire: gli Arcade Fire sul palco sono in costante movimento e ad ogni brano suonano cose differenti e ciascun membro può passare dalla chitarra alla tastiera, alla batteria (alcuni pezzi vedono la presenza di un doppio drummer), alla fisarmonica o addirittura allo xilofono, con sorprendente rapidità. È la loro caratteristica da sempre ed è anche ciò che rende un loro show così colorato, divertente e, soprattutto, bello da vedere e da sentire.
A completare la formazione ci sono anche Sarah Neufeld al violino e ai cori (faceva parte del gruppo in pianta stabile ma adesso si limita a seguirli in tour, per potersi dedicare ai suoi vari progetti) e due session ai fiati (sassofono soprattutto) e alle percussioni. Un ensemble di nove persone, che è un po’ un’orchestra, un po’ una marching band, un po’ un canonico gruppo rock e che ama quello che fa talmente tanto che non ha bisogno di nessun artifizio di scena per comunicare.
Basta l’energia, in effetti, basta la spontaneità. Quella spontaneità per cui Will corre come un pazzo avanti e indietro suonando un tamburo, durante “Rebellion (Lies)”; o la tenerezza un po’ orgogliosa con cui Win guarda Regine cantare “Sprawl II” mentre lui sta suonando il piano.
O ancora, la follia contagiosa di Richard quando massacra la chitarra o si agita sulla tastiera; o la gioia che trasmettono quando stanno tutti sulla stessa riga, a suonare determinati brani, compatti e affiatati come una famiglia.
La resa sonora non è esattamente delle migliori ma come sempre, dopo un normale inizio di assestamento, le cose si sistemano e si riesce quasi sempre a distinguere ogni strumento implicato nelle varie canzoni, ovviamente nei momenti in cui il pubblico rimane più tranquillo.
I brani nuovi funzionano bene e hanno una grande responsabilità, come già detto, nel portare lo show verso atmosfere molto più ballabili che in passato. Forse l’unica un po’ sottotono è “Chemistry”, l’inedito che hanno iniziato a portare in giro. L’avevo “sbirciata” su YouTube e non mi aveva entusiasmato; sentendola ora di persona ho l’idea che, pur funzionale all’economia dell’insieme, sarà probabilmente il brano più debole del disco.
Mi ha fatto invece l’effetto opposto “Creature Comfort”, che denuncia in maniera disarmante e leggermente ironica quel bisogno ossessivo che il mondo occidentale sembra avere di “rimuovere il dolore”, per dirla come Brunori nel suo ultimo disco. L’avevo ascoltata due volte a Barcellona e mi era sembrata niente di più di un’outtake di “Reflektor”. A Milano, complice anche l’averla assimilata dovutamente nella versione in studio, appare di una potenza devastante, con un Synth magnifico che si sposa ad una batteria marziale. La cantano già tutti e questo potrebbe essere un segno positivo.
Niente male anche il mantra pseudo dance di “Signs of Life” ma per quanto mi riguarda la vera perla tra le nuove canzoni è “Electric Blue”, uscita come singolo giusto una manciata di giorni fa e che proprio in Italia fa il suo debutto live. È un episodio elegante, sfuggevole quasi, con le sue sonorità che ricordano un po’ la disco anni ’70; un brano dall’andamento sensuale, dove Regine raggiunge forse l’apice della sua prova vocale; un brano che racconta la difficoltà di amare, di leggere il cuore di una persona per trovarvi una sintonia col proprio; un brano che, anche se qui non viene proiettato, non può essere scisso dal suo affascinante video, dove la cantante si muove in mezzo a ciò che resta del carnevale di New Orleans.
Poi c’è il tutto il resto. Che suona un po’ come copione conosciuto a memoria, specie per me che sono al terzo concerto in un mese, ma non per questo noioso da rivedere. Ripeto, la staticità della scaletta è il problema maggiore e, oltretutto, rispetto a Barcellona, dove si era sentito anche qualcosa che di solito non viene suonato quasi mai, qui il tutto è un po’ più ordinario, con la sola eccezione di “Neighborhood #1 (Tunnels)”, uno di quegli episodi che da qualche anno sembrava essere scomparso.
Non va poi così male, in fin dei conti. Certo, è svanita la speranza di ascoltare “Suburban War”, che aveva timidamente fatto capolino in alcune date, settimane fa. Da quel capolavoro che è “The Suburbs” continuano perciò ad essere estratti i soliti pezzi: la title track, in una versione di più ampio respiro, con la presenza di sassofono e violino a dilatare il tutto, che è stata preceduta da un sentito ringraziamento a David Bowie (che li aveva supportati molto a inizio carriera e che pochi anni prima della morte aveva realizzato un piccolo featuring in “Reflektor”); la cavalcata ariosa di “Ready To Start”, che è sempre uno dei momenti più liberatori del loro show; ancora, la magnifica “Sprawl II” con una Regine totalmente sugli scudi.
Durante “No Cars Go”, che è un altro dei loro pezzi più famosi, risulta evidente una volta di più quello che dicevo all’inizio: cantano cose impegnative, gli Arcade Fire, ma lo fanno con grande leggerezza. Parla di fuga, questo brano, ma non come lo potrebbe fare una canzone di Springsteen; è una fuga universale, “cosmica”, dove ci si chiede se esista un luogo dove essere finalmente in pace, senza dolore, felici; un posto dove si possa andare tutti, uomini, donne, vecchi, bambini. Un posto dove l’umanità possa ricominciare. Se esista o no non lo sappiamo ma dal modo con cui urlano il ripetuto “Let’s Go” del finale, sembra proprio che ci credano.
Oppure, “Afterlife”, che è una canzone struggente sulla possibilità di ricominciare a vivere dopo aver perso una persona amata; una canzone dove il mito di Orfeo, che ammantava tutto “Reflektor”, si fa contemporaneo e diventa la chiave di lettura del meraviglioso video, dove un padre messicano è alle prese con la sfida di crescere due figli, con la moglie scomparsa come presenza costante.
Ma in fin dei conti, vogliamo davvero ricordare tutto questo mentre balliamo al ritmo di questi pezzi? Oppure preferiamo che la musica ci trascini via e non ci faccia pensare ad altro? La verità, almeno per quanto mi riguarda, sta nel mezzo ed è secondo me l’autentico messaggio che il gruppo ci ha voluto comunicare: “Noi cantiamo di queste cose perché queste cose fanno parte della realtà; ma la realtà è positiva, è bella, sempre. Allora non scandalizzatevi se raccontiamo storie di dolore sopra una musica ballabile: ballate anche voi, e non dimenticatevi di che cosa è fatta la vita.”. Se le cose stanno veramente così, allora commuoversi e ballare allo stesso tempo non sono più due azioni antitetiche ed è davvero bellissimo poterlo fare.
C’è poi “Reflektor”, che a metà concerto funziona molto meglio rispetto a quando, tre anni fa, era posizionata in apertura. Grande traccia, forse la più grande che abbiano mai composto, con un groove strumentale da brividi nel break centrale.
A chiudere il set, la botta spaventosa di “Neighborhood #3 (Power Out)”, poi i bis con una “Wake Up” dove il coro del pubblico è talmente forte da lasciare esterrefatta la stessa band. Alla fine Win lancia il suo tamburello ad un bambino, che è stato tutto il concerto sulle spalle del padre, e quando vede che altri se lo stavano accaparrando, intima più volte di lasciarlo prendere a lui, e non è soddisfatto finché questo non accade.
Parrebbe finita, invece c’è spazio ancora per una “Neon Bible” raccolta e a luci spente, col solo ausilio della luce dei telefonini dei presenti. “Sono momenti bui questi, occorre stringersi insieme”. E perdoniamo loro anche una versione un po’ raffazzonata, coi telefoni che, ovviamente hanno reso il tutto piuttosto invivibile.
“Everything Now”, appunto. Puoi avere tutto subito e quindi perdere tutto senza gustare nulla. Oppure, viceversa, puoi decidere di rimanere lì, nell’istante, nel qui e ora che hai davanti, e avere quindi la possibilità di gustartelo pienamente. Questo è quello che ci hanno dato gli Arcade Fire questa sera, per l’ora e tre quarti che è durato il loro concerto. È nell’istante che succedono le cose. Non illudiamoci di poter avere tutto. Scegliamo dove stare. E assaporiamo fino in fondo.