Non conosco le sue canzoni a memoria: lui non è mai stato il mio cantante preferito. Eppoi ha uno stile tutto suo che m’infastidisce, anche mi innervosisce. Era questo che fino a qualche tempo fa pensavo a proposito di Vasco Rossi, il rocker emiliano che ieri sera, a Modena, ha frantumato ogni record precedente celebrando un megaconcerto alla presenza di 220mila persone, accorse per far festa ai suoi quarant’anni di carriera musicale. Non m’affascinava, ripeto. 



Poi è capitato che una sera, rincasando, la radio stesse mandando in onda una delle sue canzoni più celebri, “Sally”. Quella canzone l’amavo nella versione cantata da Fiorella Mannoia. Eppure era stata scritta da Vasco e quella sera l’ho sentita uscire dalla voce non-edulcorata, ruvida, urlata del Vasco-nazionale. Le parole mi sono parse frecce appuntite: “E’ già stata punita per ogni sua distrazione o debolezza, per ogni candida carezza data per non sentire l’amarezza”. Con un finale che pareva scritto su-misura per quella mia notte in autostrada: “Forse la vita non è stata tutta persa, forse qualcosa si è salvato”. Ascoltandola è come se mi si fosse presentata davanti in una maniera così ricca di confidenza che, lo ammetto, ad un certo punto non sono più stato capace di distinguere se ero io che ascoltavo “Sally” oppure se era la canzone che mi stava a sentire. A mente fredda ho capito, con una percezione mai così densa, che da qualche parte c’è sempre una canzone che ha le parole che io non ho. Le parole migliori per dire quello che io sono in quell’esatto istante della mia vita. Parole-di-profezia.



Vasco Rossi, che piaccia o che non piaccia, è un uomo-di-parola. Non nel senso che “mantiene la parola data”, ma in un senso più liturgico: la sua arte gli permette d’innervare le parole, di cucirci addosso la vita vera, vissuta, banale o profonda che essa sia. La vita della gente. E’ un povero-cristo come me, pur da altezze musicali selvagge e vertiginose: eppure, in certi attimi, è attraversato da un lampo di genio, da un’illuminazione spaventosa, da quell’ispirazione che lo “prende e lo porta via”, per prendere a prestito le parole di una sua canzone. E’ proprio in quell’istante che l’arte, in Vasco, mostra la sua essenza: è in grado di partorire frammenti di piacere puro — canzoni, poesie, racconti — che superano chi li firma. Nelle canzoni Vasco prende la vita e la racconta: la solitudine, la rabbia, l’insensatezza, la rivalsa, l’alba-chiara, il generale dietro la collina. Tutto fa entrare nelle sue note: poi le affida al pubblico e quella vita inizia ad essere vita-condivisa. Ecco, allora, che un ragazzo/a che organizza nell’iPod una sua lista di canzoni quasi s’accorge che Vasco ha sintetizzato la sua vita in musica.



Qualcuno — c’è sempre qualcuno che non accetta di fare i conti col genio altrui — dirà: “Non c’è luce nelle canzoni di Vasco”. E’ vero: in certi suoi testi è il buio che splende. Proprio perché splende il buio, però, ispirano il desiderio della luce. D’altronde un’opera non è religiosa perché tratta temi di religione, ma nella misura in cui addita alla dimensione della trascendenza, di un altrove verso cui addentrarsi. Anche una certa letteratura dell’assurdo potrebbe lavorare l’uomo facendogli nascere dentro quell’inquietudine che lo porta ad allacciarsi le scarpe e incamminarsi, magari verso gli abissi dell’anima. A fare in modo che la sua vita assomigli a quelle canzoni che aspetti che finiscano prima di scendere dalla macchina. 

Da quella sera in autostrada, Sally non l’ho più abbandonata: me la riascolto spesso “gridata” da Vasco, avverto la necessità di prestarle ascolto, di gustarmela nella sua ruvidezza, in quelle note femmine, selvagge. Vere. Il fatto è che quella canzone, quella sera, ha prodotto in me una sorta di shock: c’era un ricordo che pensavo d’essere riuscito a nascondere per sempre. “Sally” me l’ha trovato e mi ha aperto gli occhi della memoria danzando sul pentagramma.