Verso le sei del pomeriggio di sabato, quando sullo schermo gigantesco si accende il video, la gente che si era seduta a riposare si alza tutta di un colpo e si compatta. Trent’anni dopo l’inizio del viaggio nell’America profonda che cambiò il destino di quattro ragazzi della periferia dublinese, sullo schermo non scorrono immagini, ma lunghe poesie dalla lingua dura. Elisabeth Alexander, Lucille Clifton, Ferlinghetti, Sherman Alexis, Robinson Jeffers, Komunyakaa fra gli altri, poeti qui sconosciuti e là grandi. Se le perderanno quasi tutti, fermarsi in silenzio a leggerle, in mezzo alla calca, sembra una follia, e dopo un po’ molti si stancano di guardarle, ma sono lì, e non sembrano mai bastare.



L’Irlanda è stato un paese immenso per i suoi poeti nei due secoli appena trascorsi (penso a Heaney, Kavanagh, Yeats), ma qui nuotiamo nel mare grande di God’s Country, dell’America più profonda, e allora si va in cerca di quelle parole, amare e piene di compassione, grate del mondo e piene di dolore e ingiustizia. “We can all be saved”. 



Penso a questi versi minuti dopo, quando Noel Gallagher intona, dopo quasi un’ora di musica, “Don’t look back in anger”. L’hanno cantata a Manchester, per strada, dopo la strage al concerto di Ariana Grande, e adesso la canta l’Olimpico.  Possiamo tutti, davvero, essere salvati? Cosa siamo venuti a cercare? La musica nutre e lenisce, anche solo l’essere insieme lenisce. L’attesa è più lunga del previsto; per iniziare deve fare più buio.

Poi tuona, dal centro della passerella, l’inconfondibile battere di Sunday Bloody Sunday. E’ così che esplode il concerto. “And it’s true we are immune, when fact is fiction and tv reality / And today the millions cry. we eat and drink while tomorrow they die”.  



La bellezza è verità, la verità è bellezza, dice Bono. Tutti vengono a Roma in pellegrinaggio, e oggi noi siamo andati in pellegrinaggio sulla tomba di Keats. Questa è la notte più bella di tutte. 

Poi canta Bad, e dedica ai poeti morti, a Keats, ai cantanti “che erano anche poeti” come l’amico Pavarotti We can be heroes just for one day. Cantando Pride, Bono cambia le parole. L’uomo scaraventato sulla riva dell’originale diventa “one boy”, uno dei tanti piccoli figli del mondo che il mare quotidianamente restituisce. Le parole di Martin Luther King scorrono a destra: “Are we extremists of hate or of love?”. Siamo estremisti dell’odio o dell’amore? Una domanda come un pugno, a guardare i notiziari. Sembra che il tempo non sia passato. Allora Bono prega, prega “Keep us faithful. Faithful to justice, peace, community, doctor King”. 

Poi il genio di Anton Corbijn irrompe sullo schermo. Lo stadio, dal prato, diventa una strada enorme dell’America profonda, sulle note di Where the streets have no name. Sembra un Bill Viola formato rock, questa strada che va e che va. Passano uomini, e uno si gira e ci guarda, per tirarci dentro, come nelle cappelle affrescate del Medioevo, solo che questa è elettrica. I sing the body electric, scriveva Walt Whitman. Noi camminiamo sulle grandi vie tra i deserti e le montagne, con Keats e gli U2. Bisogna andare, perché “I still haven’t found what I’m looking for”, non abbiamo ancora trovato quello che siamo venuti a cercare.

“Il suono più bello del mondo”, la voce. Ad ogni concerto, per Bono, quella notte è l’unica, la più bella; è essere vivi, in musica. E la musica continua, accompagnati dalla meraviglia delle immagini, che ti risucchiano dentro. Tutti i cavalli di battaglia dell’album. Una spettacolare Red Hill Mining Town è rivisitata con la band che affronta specularmente il video della banda dell’Esercito della salvezza, in una città disabitata, con il sole che fa tutto rosso. 

Welcome to lato b of the cassette, now, dice Bono. E’ un grande affresco di paesaggio, quello in cui siamo immersi, fatto di musica, immagini e parole. Si ricorda l’amico perduto in One tree hill, si chiede guarigione in Exit, si accompagnano le Madri dei Dispersi che sentono ancora il battito del loro cuore.

Finisce qualcosa. Bono, Adam, Larry e the Edge sono sommersi dagli applausi. In un italiano incerto, misto all’inglese, Bono ringrazia: Grazie, grazie. Grazie per averci dato le nostre vite, perché voi date la vita a queste canzoni. Gli si incrina la voce. Tutto diventa buio.

E poi, il buio è squarciato da due occhi lunghi venti metri, resi ancora più intensi dal velo che li incornicia. Sono gli occhi di Omaima, che è adolescente e vive in un  campo di profughi siriani. “Immagina se tu avessi davanti a te uno stadio pieno di gente, lontano, in Europa, cosa vorresti dire loro?”. “Vorrei tanto poter dire loro di realizzare le proprie aspirazioni. Vorrei di loro di trasformare in realtà ciò in cui credono”.

Bono si prende sempre il rischio del sentimentalismo e della retorica, perché pensa che il guadagno sia comunque più alto. Anche chi lo odia, lo fa perché irritato dalla sua spudoratezza, nel bene e nel male. D’altra parte, qualche tempo fa, discutendo dei Salmi, aveva dichiarato che l’unico modo per piacere a Dio è essere brutalmente onesti, e questo è la radice non solo di un rapporto con Lui ma anche di ogni grande canzone o di qualsiasi opera d’arte che abbia un qualche merito. 

Sulle immagini, come già due anni fa, delle rovine della Siria, questa volta si alza Miss Sarajevo, scritta negli anni Novanta con Pavarotti di fronte ad altre bombe. Vengono i brividi per quella guerra così vicina, al di là del mare. Non lo sapevano che questo canto non si sarebbe fermato, che il sangue non si sarebbe fermato. Che in questa musica, come in tanto di quello che abbiamo ascoltato stasera, c’era una profezia. Is there a time? Ci sarà un tempo per tornare a sperare nell’amore? 

Bono torna sul palco: Grazie, Italia, per quello che fate per i migranti. Voi siete il meglio dell’Europa! Tenete stretti i vostri valori umani e tenete i vostri occhi bene aperti, perché voi siete gli occhi dell’Europa. Beautiful day, è questo. Quando insieme si riscrive la storia, allora è un giorno meraviglioso.

La musica deve togliersi dalla politica? Lui pensa di no, e usa tutto il suo essere per comunicarlo. Stasera non tira sul palco nessuna ragazza, come di solito, ma vuole idealmente sul palco tutte le donne del mondo, le mogli, le figlie, le colleghe, e tutte le donne, a cui dedica Light my way. Lo fa chiamando a raccolta le facce smisurate delle donne passate e presenti che hanno fatto la storia: Ada Lovelace, Patti Smith, Malala, le donne pilota dell’esercito in guerra, decine e decine di altre loro compagne. 

Parla della nuova campagna a favore dell’istruzione femminile nel mondo, che si chiama One, come la canzone che comincia a salire, perché, dice, per cambiare il mondo bisogna far studiare le donne, che sono quelle che il mondo lo crescono.

Le note si spengono, mentre Bono parla per l’ultima volta: “Grazie a voi, grazie per averci donato la vita che non meritavamo e non avremmo mai immaginato di poter vivere. Vi lasciamo con un pezzo dell’album nuovo, che è ormai finito. Se lo dice Edge…”; e intona The little things that give you away.  

C’è un attimo di smarrimento, alla fine. Quasi come se tutto quello che è successo fosse troppo, e si abbia paura che non duri.  La gente sciama via, euforica, viva, stanca, qualcuno anche deluso per i problemi di amplificazione sugli spalti. Rimane la domanda: noi, che siamo gli occhi dell’Europa, che cosa vediamo? E di quale estremismo vogliamo bruciare, noi, in questa notte, dottor King?

La musica (come tutta l’arte) non è fatta per dimenticare, ma per ricordare – non solo i buchi neri del tempo in cui viviamo, ma anche ciò di cui siamo fatti. Siamo fatti della stessa materia dei sogni, diceva Shakespeare. O poco meno degli angeli, diceva il salmista. Ecco, forse siamo venuti qui per ricordarcelo.