Su questa testata il 18 luglio, commentando la Turandot, elegante e tradizionale che apriva il festival pucciniano di Torre del Lago, abbiamo annunciato che una versione innovativa della medesima opera era in arrivo allo Sferisterio di Macerata. Ha debuttato il 21 luglio.
E’ un prodotto della “premiata ditta” Ricci/Forte che da qualche tempo ha molto successo in Francia, al Romeuropa Festival ed in vari teatri italiani. E’ la prima volta che si accostano al teatro in musica. Come affermano nel programma di sala, la vicenda è spostata dal “mondo delle favole” allo “spazio mentale” di Turandot, “una distesa di ghiaccio sulla quale ogni forma di vita viene analizzata e catalogata” per paura di essere posseduta da un uomo e diventare madre. Una lettura, quindi, psicoanalitica, in armonia con gli anni in cui Puccini scrisse l’opera e, a Vienna, Freud iniziava la psicoanalisi.
Non è una lettura né nuova né originale. Di recente, una lettura analoga è stata presentata da Henning Brockhaus a Roma (2006) e sempre nel teatro della capitale da Denis Krief (2015). Non esistono DVD né della prima né nella seconda; dato che Ricci/Forte non sono frequentatori di teatri d’opera, è comprensibile che non abbiano contezza e pensino che la loro proposta sia originale. Per chi si vuole avvicinare al teatro d’opera degli anni venti con riferimento alla psicoanalisi, dovrebbe essere un must studiare il DVD di Die tote Stadt di Erich Korngold con la regia di Willy Decker (2004), una produzione che ha fatto il giro del mondo e che la prossima stagione credo sia in programma a Vienna.
Non mi cale che l’idea presentata al pubblico di Macerata come originala tale non sia ma che mentre Brockhaus e Krief hanno dei gioielli di teatro in musica, la “premiata ditta” ha presentato un “pasticciaccio brutto” simile a quello che il commissario Ciccio Ingrassia doveva dipanare nel romanzo di Gadda.
Il prodotto non è rispettoso né del libretto né della musica. Ad esempio, Liù non si suicida ma viene uccisa da una revolverata di Turandot. Turandot non si fa baciare da Calaf al termine del duetto finale, ma viene stuprata in una “casa mobile” (sul tipo di quelle costruite per i terremotati), gli scherani di Turandot uccidono tutti i bambini di Pechino per timore che uno di essi, diventato adulto, abbia rapporti con la Principessa di ghiaccio, la quale, dato che la vicenda è ambientata al Polo (o giù di lì) usa come mezzo di trasporto un enorme orso bianco.
Inoltre, lo spettacolo è pieno di gag per épater les bourgeois (cercare di fare colpo sui piccoli borghesi): il popolo di Pechino al primo atto in verde (come leghisti o hostess Alitalia), al secondo in abiti scuri, al terzo come immigrati appena discesi da un barcone o usciti da un CIE. Ping, Pong Pang sono medici sadici al primo atto, clown da circo al secondo, burocrati-questurini al terzo. Abbondano i “quasi nudi” maschili che con l’opera non c’entrano nulla. Anche l’impiego di palloncini bianchi, come per i compleanni dei bambini.
L’aspetto più sorprendente è che questo “pasticciaccio brutto” è piaciuto al pubblico che, non ha seguito, le poche flebili proteste ma ha applaudito con calore.
E la parte musicale? Nella serata, tutta imperniata su Ricci/Forte, ha avuto, ritengo, poca attenzione. Pier Giorgio Morandi ha diretto con precisione l’orchestra regionale delle Marche. Carlo Morganti ha avuto difficoltà nel far sì che il coro Vincenzo Bellini cantasse in modo ordinato. Rudy Park (Calaf) ha voce a volontà e si è meritato un caloroso applauso dopo Nessun Dorma. Iréne Theroin (molti la ricorderanno come Brunhilde a Palermo ed alla Scala e come Turandot a Roma nel 2015), ha strillato un po’ troppo in In quella Reggia e nella successiva scena negli enigmi (forse perché imbarazzati da tanti maschi in perizoma mentre sta per iniziare la “storia” tra lei e Calaf) ma è sempre una brava professionista. Davinia Rodriguez è stata una Liù dalla bella voce ma dalla dizione del tutto incomprensibile. Difficile commentare gli altri data la continua agitazione sul palcoscenico.
Lo spettacolo andrà al Teatro Nazionale Croato di Zagabria che lo co-produce. Meglio non farne un DVD. Il “diritto all’oblio” vale anche per il teatro musicale.