Nessuna band come gli Yes ha portato sulla ribalta del rock la complessità compositiva di un matrimonio totale tra ispirazione rock e potenzialità della scrittura classico-sinfonica. Atmosfere continuamente cangianti, ispirazioni filosofiche orientaleggianti, riferimenti rock-jazz e country su armonie di chiara matrice ottocentesca: ecco il cocktail compositivo di una band che non esitava (ai tempi d’oro) a cimentarsi in composizioni che trovavano soprattutto ascolto in un pubblico affamato di suoni ricchi ed evocativi, in un epoca in cui King Crimson, Genesis ed Emerson, Lake and Palmer costituivano con loro la scena nobile del rock mondiale.



Stimolante e piacevole, dunque, ritrovare una delle ultime incarnazioni di questa longeva band britannica in tour in Italia – Yes Featuring Jon Anderson, Trevor Rabin, Rick Wakeman  – nello specifico nella cornice agreste dell’Arena Campagnola di Schio, in una delle tre date italiane che hanno visto sul palco questi tre sinceri interpreti di una serie di classicissimi titoli del progressive rock. Il concerto – visto la presenza di Rabin, chitarrista che ha militato nella band in tutti i periodi in cui Steve Howe non ha fatto parte del team anche se in alcuni momenti i due hanno “convissuto” – vede una partenza affidata a Cinema, a cui poi è seguito Changes, entrambi tratti da 90125, disco da altissima classifica nel 1983. 



Brani da classifica a parte, lo show va francamente in orbita sui titoli classici: Perpetual Change e And You And I sono due squarci di musica stellare, capaci di alternare melodia purissima a un patchwork ritmico complicato e tesissimo. Pezzo di complessità armonica e ritmica inarrivabile, a metà serata esplode Heart of Sunrise, uno dei capolavori emotivi del rock più colto. In questo che rimane uno dei brani in cui il basso di Chris Squire (scomparso due estati fa per una leucemia) ha lasciato un’impronta indelebile, i mille piani di lettura dei testi della band si fanno caleidoscopio: l’alba è risveglio dell’uomo, è il risorgere nell’amore, è la sfida al grigiore della città (“I’m lost in the city”), è la luce che viene dalle sapienze antiche: parole che ripercorrono i tanti temi filosofico-esistenziali (ed esoterici) a cui gli Yes hanno per lunghi anni abituato i loro fans, tra sacre scritture e trattati teosofici, tra ecologismo e purezza mistica.



La lunghissima Awaken (da Going for the One) occupa uno spazio particolare della parte finale del concerto, quello delle suite che da sempre sono marchio di fabbrica della band, da Close to the Edge (una sinfonia di 19 minuti dall’omonimo disco del 1972, quando l’età media della band era 22 anni), alle quattro parti (lunghezza media: 20 minuti) di Tales from Topographic Oceans.  E’ qui che risulta evidente che tutto il progressive-rock deve qualcosa agli Yes e a questa cocciuta voglia e capacità di portare in scena visioni musicali apparentemente fuori dal tempo, ieri come oggi. Più si accorciano le durate delle canzoni di successo radiofoniche, più Yes e i loro mille influssi (rintracciabili in Dream Theatre e Mastodon, ma anche in Iron Maiden e Mars Volta) godono nel portare in scena pezzi complessi, che costringono l’ascoltatore in una fascinazione che è di pelle e di cervello, di emozione e di godimento intellettuale.

La formazione in scena per presentare questo anacronistico, ma stupendo labirinto sonoro è impeccabile: l’eterno Anderson (72 anni) rimane uno dei più grandi cantanti del progressive, con una presenza scenica come sempre a metà strada tra l’hippie e il monaco induista, ma con una verve di simpatia contagiosa. Rick Wakeman (69 anni), vero maestro del palco, fa svolazzare il suo tradizionale mantello da Mago Merlino davanti ad un imponente castello di nove tastiere, godendo di ogni suono di moog, mentre Trevor Rabin è un chitarrista di tecnica ottima, onnipresente e ormai ben compaginato nel climax del suono Yes. A completare questa line up ci sono due perfezionisti che rispondono al nome di Lee Pomeroy (basso) e Louis Molino III (batteria). 

Pur nella perfetta confezione, questi Yes hanno un paio di difetti (forse non così gravi, ma sicuramente evidenti per chi ama da tanto questa formazione) che nessuna rimescolatura e restyling potrà aggiustare. Il primo, macroscopico, riguarda il chitarrista: Trevor Rabin è sensazionale, un funambolico chitarrista di progressive-metal, quasi assimilabile a John Petrucci ed agli altri axeman del genere, ma lontano mille miglia dal demiurgo del suono-Yes, mister Steve Howe (70 anni). Quest’ultimo in scena interpreta nuances e sfumature chitarristiche che il buon Rabin neppure immagina. Allo stesso modo il mix vocale (tutti sulle ottave alte) del trio Anderson-Howe-Squire, rimane un ricordo sbiadito nell’impatto vocale degli Yes visti oggi in tour. 

Ma onestà per onestà: queste considerazioni critiche possono parimenti essere fatte verso l’altra incarnazione-Yes che in questi tempi gira il mondo dei concerti. Già perché proprio in questi mesi sta attraversando il Nord America un’altra “formazione-Yes” composta proprio dall’inarrivabile Stevie Howe, insieme ad Alan White (storico batterista della band), con l’ex Buggles Geoff Downes (tastiere), Bill Sherwood (basso) e con il giovane vocalist Jon Davison che ha l’ingrato compito di interpretare i fasti vocali di Jon Anderson, recitando molto bene (per carità!) la lezioncina, ma purtroppo senza alcun carisma. Perché questo sdoppiamento in casa? Hanno forse bisogno di nuovi stimoli arrivati ai venerabili 70 anni? Non potevano andare avanti insieme per il godimento del pubblico? 

Forse sono critiche e osservazioni di lana caprina, anche perché l’unica conclusione ovvia è che gli originali sono sempre meglio delle riproduzioni, per quanto valide e certificate. Noncurante a quel che accade oltreoceano su altri palchi e con altri pubblici, il concerto di Schio degli Yes ha vissuto le sue battute finali con Owner of a Lonely Heart, il frutto migliore della vena pop-rock di Trevor Rabin (e più grande successo da hit parade della band), poderoso e avanguardista abbastanza da piacere a tutti. Il brano soprattutto permette a Wakeman e Rabin in un lunghissimo finale di andarsene a spasso in mezzo al pubblico duettando come vecchi commilitoni hippie, il primo con una keitar a tracolla, il secondo con una Fender elettrizzante per il godimento del pubblico. La classica Roundabout chiude le danze, mette tutti contenti e manda a nanna pubblico e suonatori.