In una recente intervista Win Butler ha confidato che una volta David Bowie gli disse che, artisticamente parlando, tutte le volte che si è preoccupato delle reazioni del suo pubblico, ha fatto delle scelte sbagliate. E ha poi aggiunto: “Ricordo ancora che la prima volta che abbiamo suonato “Wake Up” (uno dei brani più celebri del loro primo disco NDA) alcuni sono usciti dalla sala perché non gli piaceva quello che stavano ascoltando…”. 



Ecco, mi pare giusto mettere le cose in chiaro perché, mai come ora, gli Arcade Fire sembrano arrivati a quel punto cruciale della carriera di una band, in cui ogni cosa che fai verrà per forza di cose confrontata con le tue origini. Era già accaduto con “Reflektor”, nel 2013, accade a maggior ragione ora che “Everything Now” è stato anticipato da quattro singoli e da un breve tour che quei brani ha portato sul palco. 



Mi è capitato, qualche settimana fa, addirittura di leggere una discussione su Facebook in cui sostanzialmente si diceva che “Per la carriera che hanno fatto, adesso si meriterebbero anche di vendere un po’ di dischi in più”, come se si stesse parlando di un gruppo sulla via della pensione. 

Ma questa è d’altronde la normalità nel mondo del “tutto subito” che loro stessi hanno scelto di cantare nel brano che dà il titolo all’album: siamo in una realtà in cui tutto accade simultaneamente e in cui non c’è più spazio per la riflessione, per i ripensamenti, per le attese. Tutto quel che succede, succede in quel momento e, soprattutto, lo fa in maniera definitiva, assoluta, non può in alcun modo essere rigiudicato, rielaborato. 



Così gli Arcade Fire arrivano al quinto disco di una carriera iniziata quattordici anni fa, ma c’è già un bel po’ di gente che li sta bollando come una band del passato, che ha realizzato uno, forse due bellissimi dischi e che poi non è più riuscita a ripetersi. Certo, diventa più famosa ogni anno che passa ma, per quanto riguarda la qualità della proposta, le cose migliori sono già belle che andate.

Grazie ma non ci sto. Se le cose stanno così, se ogni volta che un gruppo importante fa un disco bisogna fare sfoggio di spocchia un tanto al chilo, allora preferisco lasciare perdere. 

La verità, dal mio punto di vista, è un’altra: gli Arcade Fire hanno pubblicato un nuovo album e, al di là di tutto quello che si potrebbe dire sul prodotto in sé, sulla qualità delle nuove canzoni, è evidente che ancora una volta ci abbiano dato qualcosa su cui riflettere attentamente, prima di parlare. 

D’altronde lo stesso Win, intervistato da Giovanni Ansaldo qualche ora prima del concerto di Milano di dieci giorni fa, aveva detto che: “Mi interessa solo il giudizio che le persone avranno tra venti o trent’anni. Quello che dicono ora non è importante.”. 

Mai dichiarazione fu più azzeccata, in effetti. È inutile cercare di valutare questo disco sulla lunga distanza, quando sono solo pochi giorni che gira nel tuo stereo. Inutile dire se si tratti di un passo indietro o in avanti. Si deve parlarne, certo, ma senza mai dimenticare che non è la prospettiva storica quella che dobbiamo cercare. 

Quando uscì “Reflektor” avevo scritto che quel disco era il migliore che la band canadese avesse fino a quel momento realizzato. Oggi, a quattro anni di distanza, ne sono ancora più convinto, anche se ho nel frattempo capito che, dal punto di vista dei gusti personali, propenderò sempre per “The Suburbs”. 

“Everything Now”, ora che lo abbiamo finalmente disponibile nella sua interezza, conferma quello che era già piuttosto intuibile dall’ascolto dei singoli: la direzione è la stessa del suo predecessore ma la formula è, in qualche modo, più snella e lineare. 

Thomas Banglater (Daft Punk) e Steve Mackey (Pulp), i due personaggi che hanno messo mano alla produzione (su “Creature Comfort” ha invece lavorato Geoff Barrow dei Portishead) hanno indubbiamente contribuito a far virare la proposta sonora verso lidi maggiormente Pop. Non dal punto di vista dell’elettronica, però: quella componente è impiegata poco, è sicuramente più abbondante che in passato ma rimane nel complesso sullo sfondo; tutto il disco ha, semmai, un’impronta Vintage Disco che è poi il punto di contatto maggiore con “Reflektor”. 

Le similitudini, però, non sono poi così marcate: certo, anche questo è un disco potentemente basato sul ritmo (le percussioni hanno davvero un ruolo preponderante), anche questo vive di atmosfere nel complesso più aperte e solari. 

Eppure, riascoltato oggi a distanza di anni, “Reflektor” era un lavoro solo apparentemente semplice ma in realtà molto stratificato, anche nelle melodie, oltre che negli arrangiamenti. E tutta la positività di cui avevamo detto all’epoca c’era, sì, ma immersa in suggestioni spesso sospese e malinconiche. 

Ora, anche “Everything Now” non è un disco semplice. Nel senso che non è un disco che si può pretendere di aver afferrato dopo pochi ascolti. Ci sono un sacco di strumenti diversi in ogni canzone e ogni due secondi viene aggiunta o tolta della roba, con una particolare attenzione anche ai fiati, che a questo giro sembrano essere più presenti. 

Inoltre, le melodie sono senza dubbio dirette ma per nulla banali ed è solo l’ascolto prolungato che può permettere di impadronirsene davvero. 

Ciononostante, questo è un disco meno contorto e più accessibile del precedente, sarebbe abbastanza inutile negarlo. 

“Le nostre influenze sono le stesse di sempre: New Order, Neil Young, Clash, Debussy, Arvo Pärt, Johnny Cash”. Questo lo dicono loro, ma c’è davvero dentro tutto questo, nel nuovo disco? 

Di Folk qui non ce n’è traccia. Quelle sono sonorità che sono state presenti fino a “The Suburbs” ma che poi sono quasi di colpo sparite. “Everything Now” trasuda piuttosto di musica africana, che lo stesso Win Butler ha detto essere diventata una sua passione recente. La title track, del resto, ha una storia curiosa: nasce nel momento in cui il cantante e principale compositore del gruppo stava lavorando ad un remix di “The Coffe Cola Song”, un brano del musicista camerunese Francis Bebey. Dopo qualche ora, si è accorto di avere per le mani una nuova canzone ma dell’originale è stato conservato il flauto, la cui melodia funge da architrave del brano. 

Si sentono sempre i New Order, le cui aperture Dance Pop risultano particolarmente evidenti in “Put Your Money On Me”, che è anche, per quanto mi riguarda, l’episodio migliore del disco, con un ritornello tutto da cantare che va dritto al punto con una facilità disarmante. 

Sono proprio i brani che ancora non si conoscevano, che sono andati a saldarsi con quelli già noti, andando a creare un amalgama nel complesso omogeneo, pur nella personalità distinta dei singoli brani. 

Così notiamo, ad esempio, il ruolo preponderante del basso in “Signs of Life”, che ritorna nella sinuosa ed ipnotica “Good God Damn”, col suo ritmo Funk leggero e particolarmente sensuale. 

O “Electric Blue”, che ha un’atmosfera da Disco anni ’70 ma che contiene un retrogusto nostalgico e leggermente triste; lo stesso che si può avvertire nella conclusiva “We Don’t Deserve Love”, sorta di ballata anthemica con le tastiere in evidenza e un ritornello come sempre particolarmente ispirato ed emozionante. 

Ci sono anche dei frangenti in cui la band è ancora più concisa, quasi senza troppo riflettere: così “Chemistry”, che avevamo per la prima volta ascoltato dal vivo a Milano, ha un andamento pseudo Reggae che diverte e sembrerebbe anche ingenuo, senonché dopo qualche tempo ci si accorge che ha più sostanza di quanto non si sarebbe portati a credere. 

Stessa cosa si può dire per “Infinite Content”, che è divisa in due parti, una dall’irruenza Punk (verrebbe quasi da fare il paragone con “Month of May”), l’altra più distesa, e che non fa altro che ripetere all’infinito, appunto, la stessa intuizione melodica. 

Nelle scorse settimane si è discusso spesso di una presunta svolta “da stadio” compiuta dalla band e io stesso mi ci sono accodato, recensendo il loro concerto milanese. Eppure, adesso che abbiamo tutto il disco davanti, adesso che, soprattutto, possiamo leggere i testi, si capisce che le cose non stanno esattamente così. 

Si tratta del loro lavoro più accessibile? Probabilmente sì, anche perché parla un linguaggio più “ecumenico” rispetto, per esempio, a “Funeral” o a “Neon Bible”, che si muovevano invece lungo i canoni dell’Indie Rock. 

Ma se, come ho detto prima, accessibile è sinonimo di “semplice” o addirittura di “banale”, allora non ci siamo proprio. 

C’è un’urgenza, una serietà in queste canzoni, una voglia di comunicare il presente, di far sapere a che punto si è arrivati della propria ricerca, che non può in alcun modo essere associato a facili canzonette buone per ammaestrare sentimentalmente un pubblico passivo e ineducato all’ascolto (chi ha detto Coldplay?). Perché è vero, “Everything Now” potrebbe anche avere le potenzialità per diventare un inno generazionale e ancora di più forse “Signs of Life” o “Creature Comfort”, che proprio di giovani generazioni raccontano nei loro testi; eppure, allo stesso tempo, qui c’è troppa vita, c’è troppa “scomodità” perché si possa pensare che spopolino come un qualunque pezzo degli ultimi Muse. 

In effetti fa impressione come ancora una volta siano riusciti ad esprimere con sincerità disarmante giudizi spiazzanti ma assolutamente azzeccati sul mondo in cui viviamo. “Creature Comfort” è da questo punto di vista particolarmente significativa, per come riprende certe riflessioni già svolte nella vecchia “Antichrist Television Blues” ma le declina dal punto di vista giovanile. “O Dio, rendimi famosa o, se non ci riesci, fa in modo che non senta dolore”. Ancora più inquietante, questo testo, se lo associamo al tappeto sonoro anni ’80 e alle ritmiche serrate su cui è inserito. 

O in “Signs of Life”, che gioca sulla ricerca di forme di vita in altri pianeti ma che in realtà si riferisce ai giovani e alla loro incapacità di trovare qualcosa per cui spendere la propria esistenza, persi come sono tra le serate nei club e la ricerca di sesso occasionale. “Questi bei ragazzi intrappolati nel passato”, canta Win nella strofa; un verso che alcuni hanno letto come una citazione della “Retromania” così discussa oggi ma che, probabilmente, allude al fatto che questo modo di spendere il tempo non appartiene solo ai nostri tempi; c’è un vuoto, un’assenza di motivazioni, che in qualche modo è universale, che ha caratterizzato bene o male tutte le epoche. 

In “Good God Damn” si parla di suicidio ma attraverso il semplice spostamento di una virgola, la “buona maledizione” diventa un “buon Dio” per cui alla fine, si può ipotizzare che “forse c’è un Dio buono, visto che ti ha creato”. Un brano che, in qualche modo, sembra fornire una risposta positiva ai due precedenti. 

E c’è anche l’amore, in questo disco. Che è l’amore tra Win e Regine, che proprio incontrandosi e innamorandosi hanno deciso di mettere su una band insieme e che adesso che sono sposati e sono diventati genitori, continuano a fare i musicisti come sempre, tenendo dentro questa dimensione del loro rapporto nella musica che scrivono. 

Per cui nel ritmo nervoso di “Peter Pan” lui dice a lei: “Sii la mia Wendy, io sarò il tuo Peter Pan, prendi la mia mano, possiamo camminare se non ce la sentiamo di volare, possiamo vivere, non me la sento di morire”. Oppure, in “Put Your Money on Me”, l’amore diventa una scommessa tutta da giocare, perché “Se c’è stata una gara per conquistare il tuo cuore, è iniziata ancora prima che tu nascessi; sopra un cielo di cloroformio, nuvole allo Zolpidem, seduti su tappeti nei sotterranei del paradiso, siamo nati innocenti ma oggi mentiamo e ragazza, puoi dare via tutti i tuoi soldi; ma se c’è una gara, una gara per conquistare il tuo cuore, è finita prima ancora di iniziare”. Versi enigmatici, quasi surrealistici, ma allo stesso tempo di grande fascino per un brano che, quando verrà suonato dal vivo, non mancherà di rivelare tutto il suo potenziale. 

È l’amore, quindi, l’antidoto a questo mondo appiattito sull’istante, che ci fa credere che ogni cosa che vogliamo la possiamo prendere e possedere senza problemi, senza conseguenze. L’amore all’altro, la relazione con l’altro, in tutta la sua complessità irriducibile. Un amore che si può anche temere di non meritare, come adombrato nel brano conclusivo, ma che in ultima analisi c’è, perché è sempre un qualcosa che è donato, che noi non siamo in grado di creare: è quel Cristo in croce evocato sorprendentemente ed enigmaticamente nel finale di “We Don’t Deserve Love” che parrebbe possedere la chiave di tutto, a dispetto di tutto, anche se “il tuo amore ti lascia sempre da solo”. 

E così, quando il disco finisce esattamente come era iniziato, con la parte iniziale del primo pezzo che si salda con quella finale in un loop perfetto, sappiamo che non si tratta per forza di cose di un cerchio, che qualcosa in mezzo è accaduto, qualcosa da cui non si può prescindere. 

Ci vorrà del tempo per capire tutto, ovviamente. Ma penso che si possa dire che gli Arcade Fire abbiano ancora una volta fatto centro. Piaccia o non piaccia, l’apparente leggerezza di questo nuovo disco è ancora una volta in grado di disturbare e di provocare, di scuoterci dalle nostre certezze illusorie. 

Poi, appunto, vedremo se tra trenta o quarant’anni saremo ancora qui a parlarne…