Tornano in Italia i Depeche Mode, all’indomani dell’uscita del loro ultimo album, “Spirit” e la formula è sempre questa: stadi nel periodo estivo, palazzetti d’inverno (già annunciate le tre date italiane di Milano, Bologna e Torino, previste tra dicembre e gennaio).

Tre i concerti nel nostro paese, per un tour che è partito ai primi di maggio da Stoccolma e di cui non ho assolutamente voluto sapere nulla: le setlist non vengono mai cambiate di sera in sera e volevo evitare qualunque spoiler per potermi godere meglio lo spettacolo.



Sono quindi arrivato a San Siro totalmente all’oscuro di quel che sarebbe successo ma con molte aspettative: dal vivo la band britannica è sempre stata una spanna avanti a tutti o quasi e nonostante il passare degli anni, il livello rimane costantemente alto, come il precedente tour aveva peraltro dimostrato.

Quest’anno però ho optato per vedere due date: Milano e Bologna. Non è stata una decisione del tutto ragionata ma alla fine si è rivelata vincente. Innanzitutto perché, per quanto lo spettacolo sia stato identico (con però un’importante variazione, come dirò), una produzione grande come quella di Martin Gore e soci andrebbe vista da diverse angolature, per poterla assimilare in pieno.



In secondo luogo (ed è la nota dolente) perché il concerto milanese si è rivelato un totale spreco di soldi, tempo ed energie. San Siro è il luogo peggiore per ascoltare musica in Italia. L’ho già scritto altre volte in questa sede, so che molti non sono d’accordo e mi sono già attirato la mia bella dose di insulti. Nonostante questo, non ho la benché minima intenzione di ritrattare.

È un posto grande, dispersivo, il terzo anello ha una visibilità quasi nulla, il secondo scarsa, in generale l’acustica è tremenda, raggiungendo livelli intollerabili specialmente sul prato. Il risultato, è che ci si va per dire: “Io c’ero”, per respirare un’atmosfera che, questo senza dubbio, è meravigliosa, ma non ci si va per ascoltare musica. Era la prima volta che vedevo i Depeche Mode in questo contesto, loro erano al terzo concerto in questo stadio e sempre il sold out è stato rapido e scontato. La gente li ama, sono tra i pochi artisti a poter riempire davvero uno spazio del genere (e non con biglietti omaggio o dati via a due euro o poco più) e giustamente, chi abita in zona non ha molte altre scelte disponibili.



Pur considerati tutti questi elementi, mi sento di dare un consiglio: state a casa. O, se proprio ci tenete, investite qualche soldo in più e andate all’estero. Andate in Svizzera, in Germania, in Inghilterra. O fatevi qualche centinaio di chilometri e scendete in qualche altra città. È dispendioso, è faticoso ma se uno ama la musica e può appena appena permetterselo, non può buttare i propri soldi per non vedere e non sentire nulla di nulla.

Ragion per cui questo mio report prenderà in considerazione quasi esclusivamente la data di Bologna. È stato solo dopo questo concerto, infatti, che ho potuto farmi un’idea precisa del tour che i nostri stanno portando in giro. Al Dall’Ara, complice il luogo più raccolto, l’acustica decisamente migliore, un pubblico molto più partecipe e meno distratto da altri fattori contingenti, unitamente ad una situazione più vivibile sul prato (ma questa è unicamente fortuna. A Milano avevo di fianco un gruppo di “fan” ubriachi e molesti e la calca era tale che non era possibile spostarsi), me lo sono goduto decisamente di più e sono dunque più in grado di raccontare quel che è successo.

Spendiamo però due parole sul gruppo di apertura. In America ci saranno le Warpaint, in Europa si è optato per gli Algiers. In entrambi i casi, stiamo parlando di act di altissimo livello. Questi ultimi sono di Atlanta e nel 2016 hanno fatto parlare molto di sé con un debut album sorprendente, dove Gospel, R&B e Post Punk si mischiavano con l’elettronica dando vita ad un insieme esplosivo. Il nuovissimo “The Underside of Power”, uscito settimana scorsa, ha se possibile esasperato la componente oscura e “primitiva” del loro sound, velocizzando i ritmi, indurendo i suoni, il tutto con testi che sono direttamente figli dell’elezione di Trump, dei problemi razziali negli Stati Uniti e di un giudizio complessivamente negativo sull’attuale panorama mondiale.

Dal vivo non deludono e danno vita a due show brevi (30 minuti appena) ma intensissimi, dove chitarre e programmazioni si alternavano con grade fluidità, con la voce di Franklin James Fisher in grande spolvero e il nuovo innesto Matt Tong (ex Bloc Party) alla batteria a svolgere un lavoro egregio.

Sono stati purtroppo penalizzati dai volumi, tenuti considerevolmente più bassi di quelli degli headliner e dal fatto che una band del genere, in un contesto così dispersivo, non può essere in grado di incidere a dovere. Vanno visti in un piccolo locale e in questo senso mi è spiaciuto non essere andato al Santeria di Milano, il giorno prima di San Siro. Ciononostante, al netto anche del totale disinteresse del pubblico, non si può dire che abbiano deluso. Chi ha scelto di ascoltarli non può non averli graditi.

I Depeche Mode, dopo più di trent’anni di carriera, non hanno più bisogno di imbonire nessuno e possono fare quello che vogliono. Scrivere che hanno suonato bene e che hanno messo in piedi un grande show è superfluo. Chi scrive non ha una grande esperienza, con loro, non avendo avuto modo di vederli tante volte come ha fatto per altre band; tuttavia, tra video ed esperienze personali, non ho timore di esagerare dicendo che sono una delle più grandi live band del pianeta, forse addirittura la più grande.

Invecchiano, certo. Si avvicinano ai sessanta ed è naturale che i ritmi non siano più così sostenuti, che Dave Gahan si muova un po’ di meno per il palco e che (per il dispiacere delle tante donne presenti) non rimanga più a torso nudo a metà show. Sono fattori fisiologici e chi si aspettasse una replica del tour di “Music for The Masses” o di “Violator” sarebbe quantomeno irrealistico.

Se considerati invece per quello che sono oggi, per quello che sono ancora in grado di fare, per il modo in cui i loro show rispecchiano i dischi che stanno promuovendo, allora diciamo subito che il livello rimane altissimo. Anzi, spingendosi più in là si potrebbe dire che i Depeche Mode sono la band che in assoluto è invecchiata meglio, tra quelle ancora in attività con tre decenni sulle spalle. Sono giudizi personali, ovviamente, per cui chiudiamola subito qui onde evitare le polemiche che immagino fioccheranno copiose.

C’è un importante dato da sottolineare, parlando di questo tour ma che in qualche modo poteva valere anche per quello di “Delta Machine”. Chi si aspettava la dance, chi pensava di poter ballare per due ore al ritmo dei loro grandi hit del passato, sarà rimasto deluso. Dave Gahan, Martin Gore e Andy Fletcher oggi sono più cupi che mai, hanno rallentato pesantemente il ritmo delle loro composizioni e l’atmosfera è diventata preponderante rispetto al beat. I nuovi brani sono più riflessivi e, quel che colpisce, non hanno quasi mai ritornelli cantabili. A molti il nuovo disco non è piaciuto ma bisogna dire che dal vivo, quei pochi brani che hanno scelto, hanno reso davvero bene e hanno coinvolto adeguatamente il pubblico.

I ritmi, comunque, non sono alti. Questo è un concerto che come sempre ha in scaletta tantissime cose vecchie ma il più delle volte sembra quasi che il gruppo chieda di ascoltare, di cantare anche, ma di non muoversi troppo. Non è per forza un male: anche perché, la ricchezza musicale che hanno saputo esprimere è stata davvero molta.

Già, perché musicalmente è stato un grande concerto. Dave Gahan canta ancora benissimo, il suo timbro è rimasto quello affascinante che tutti conosciamo e non è andato incontro alla minima sbavatura. Martin Gore è sempre il solito tuttofare, diviso tra synth, chitarre, cori e pezzi cantati da solista. È uno dei più grandi autori di canzoni di tutta la storia del rock ma è anche un musicista notevole, con un gusto impeccabile e si ha sempre l’impressione che sia lui a dirigere il tutto. Fletch è sempre il solito: sta in alto sulla destra, dietro alla sua tastiera e perennemente nascosto dagli occhiali da sole. È un mito, un simbolo. Ma che cosa effettivamente suoni, nessuno lo sa. Sono più le volte che incita il pubblico che quelle in cui ha le mani sullo strumento per cui è lecito pensare che il peso del concerto non sia portato da lui.

Sono i due session man che da anni accompagnano i tre, a rivestire invece un ruolo non da poco: Christian Eigner alla batteria è un motore inarrestabile e dà ai pezzi un ottimo groove, inserendosi sempre alla perfezione sul tessuto elettronico; Peter Gordeno è invece un preziosissimo arricchimento delle parti di synth e tastiere, oltre a svolgere un ruolo non secondario ai cori, doppiando assieme a Martin la voce di Dave.

In tutto questo, esattamente come al giro precedente, si constata che i Depeche Mode sono prima di tutto un gruppo che “suona”, che fa musica in maniera ricca, complessa, a volte anche raffinata. Ogni pezzo proposto ha il proprio mood, la propria atmosfera, la propria soluzione di arrangiamento. Ed è bello anche notare come qualunque cosa venga suonata, anche le più vecchie (sebbene non si vada mai troppo indietro nel ripescaggio dei brani in catalogo) sia sempre riletta e aggiornata al tempo presente, dal punto di vista sonoro.

Che poi, se ci si pensa, è quello che hanno sempre fatto sui dischi: sempre al passo coi tempi, mai nostalgici, neppure per sbaglio.

E che cosa è stato ascoltato, durante queste tappe italiane di questo “Global Spirit Tour”? Per un gruppo che ha una statura come la loro, con così tanti album all’attivo e così tanti pezzi che sono ormai diventati classici, compilare una setlist dev’essere un’impresa immane. La scelta che negli ultimi anni hanno compiuto è semplice: cercare sempre di variare da un tour all’altro ma senza mai rischiare troppo. Probabilmente sanno che, soprattutto in uno stadio, gran parte del pubblico è lì soprattutto per i singoli; oppure, più semplicemente, hanno capito che certi pezzi funzionano semplicemente meglio di altri.

Fatto sta che, quando si va a vedere i Depeche Mode, contrariamente a quanto succede con act come Radiohead o Pearl Jam, di sorprese ce ne sono sempre poche.

A questo giro si punta poco sui brani del nuovo album: solo cinque su dodici sono entrati in scaletta e, sebbene “Too Much Love” funzioni benissimo subito dopo l’opener “Going Backwards”, si ha l’impressione che una “Scum” sarebbe stata nel complesso più gradita. Stesso discorso si potrebbe fare per “Poison Heart”, che dal vivo ha confermato di essere il brano più debole del disco. Da questo punto di vista, “You Move” ci sarebbe stata molto meglio.

Funziona invece il singolo “Where’s The Revolution”, che a giudicare dalla partecipazione è stato ben assimilato anche dai fan. La palma del miglior pezzo di “Spirit” però spetta a “Cover Me”, che è risultato uno dei momenti più intensi dello show, merito soprattutto di una prestazione maiuscola da parte di Dave Gahan, e alla lunga coda elettronica durante la quale il singer ha fatto a lungo battere le mani al pubblico, provocando un bel crescendo.

Non arriva niente dal precedente “Delta Machine” (abbastanza fisiologico, direi) mentre sono stati recuperati due pezzi da “Sounds of The Universe”: la potente “Wrong”, proposta con una nuova intro d’atmosfera che ne ha esaltato la successiva esplosione e, questo sì davvero inaspettato, una “Corrupt” che prima d’ora non era mai stata proposta dal vivo. Trascurabile, se dobbiamo dire la verità.

Funzionano sempre benissimo alcuni pezzi del passato recente posti in posizione d’apertura: è il caso della lenta e oscura “Barrel of a Gun”, che apriva “Ultra”, il disco della risurrezione del gruppo dopo le spaccature interne e l’overdose che quasi uccise Dave Gahan. E poi “A Pain That I’m Used To”, col suo incedere ossessivo delle strofe e l’esplosione sul ritornello, eseguito ancora una volta nella versione remix di Jacques Lu Cont che ne ha valorizzato in pieno che le caratteristiche ritmiche.

E poi non potevano mancare alcuni estratti da “Songs of Faith and Devotion”, che è forse il disco dove l’anima Blues del gruppo viene fuori di più, quello più atmosferico e meno elettronico e che quindi, in quest’ultimo tour, funziona particolarmente bene. Bellissima, da questo punto di vista, è una “In Your Room” molto sensuale, accompagnata da un video inedito che ne ha accresciuto il carattere conturbante (non ve lo racconto: giusto non fare spoiler per chi volesse vederli questo inverno).

Tra i brani rimessi in scaletta dopo qualche tempo, nella prima parte del concerto sono arrivate “World in my Eyes”, riproposta in maniera piuttosto simile all’originale, e “Home”, cantata ovviamente da Martin ma questa volta con il supporto di tutta la band, dato che negli ultimi anni era stata sempre proposta in versione acustica. Qui, sia a Milano che a Bologna il pubblico ha risposto cantando a gran voce la melodia portante e poi, terminato il pezzo, ha proseguito lungamente nel coro, costringendo il gruppo a riattaccare per godersi l’effetto complessivo. Sarebbe interessante capire se questa scena si verifichi anche all’estero, ma di sicuro possiamo dire che a noi italiani questi siparietti un po’ pacchiani piacciono molto.

Dal passato Synth Pop dei britannici viene ripresa la sola “Everything Counts”, altro grande classico che cambia completamente per qualche minuto l’atmosfera dello show e vede Dave Gahan chiamare un altro grande singalong. È una piccola parentesi, quasi fuori posto se vogliamo, perché nonostante ci si diverta e si apprezzi, risulta chiaro che quelli erano altri Depeche Mode e che quelli che abbiamo davanti sono un gruppo che concepisce la scrittura di canzoni in tutt’altro modo.

A tal proposito, è significativo come negli ultimi anni Martin Gore abbia iniziato a cantare due o tre pezzi facendosi accompagnare alla tastiera dal solo Peter Gordeno. Li sceglie sia tra quegli episodi che erano già stati concepiti per essere eseguiti così, ma non gli dispiace neppure rileggere certe cose in origine molto più ballabili. È una scelta, voluta o meno, che mostra come i Depeche, sotto sotto, siano sempre stati una grande band di Blues Rock, oltre a mettere in luce la bravura di Martin come interprete e non solo come autore.

A Milano, come nel resto del tour, sono arrivati due grandi brani come “A Question of Lust” e “Somebody”; a Bologna, la grande sorpresa, il vero regalo al pubblico: dapprima “Judas”, mai eseguita quest’anno, che i fan accolgono con un boato e il cui ritornello andranno avanti a cantare anche dopo la fine del pezzo. Nei bis, tra il delirio e la sorpresa, è arrivata addirittura “Strangelove” e bisogna dire che questa rilettura piano e voce non ha tolto quasi nulla alla magia dell’originale. Vedremo in seguito se si tratterà di una modifica permanente della scaletta o se si sia davvero trattato di un momento sporadico. Dal mio punto di vista, avrebbe valso la pena esserci solo per questi due pezzi.

Il concerto si conclude ovviamente con due grandi classici come “Enjoy The Silence” e “Never Let Me Down Again” (sempre incredibile l’ondeggiare delle braccia chiamato da Dave nel finale) che portano al massimo livello la sinergia tra pubblico e gruppo.

Nei bis, la vera novità è rappresentata da una splendida rilettura di “Heroes”, uno dei tanti omaggi a Bowie che si sono visti e sentiti sui palchi di tutto il mondo nell’anno e mezzo intercorso dalla sua morte. Qui non c’è nessuna ansia celebrativa, nessun sentimentalismo stucchevole. Sullo sfondo di una bandiera che sventola in bianco e nero, i nostri eseguono il brano alla loro maniera, lento e sinuoso, mantenendone intatto lo spirito originario ma rendendolo molto più malinconico e riflessivo, con Gahan che ovviamente si produce in un’interpretazione magnifica. Un momento emozionante, forse uno dei più belli dello show.

A San Siro si è verificato poi un piccolo “giallo”: sugli schermi è apparsa la scritta “It’s No Good” ma poi è partita, come da copione, “Walking in My Shoes”. A Bologna quindi mi sarei aspettato che il più celebre singolo di “Ultra” venisse suonato, invece tutto è rimasto come prima ma la canzone è stata accompagnata da un video inedito che invece a Milano non si era visto: logico a questo punto pensare ad un qualche problema tecnico (anche perché “It’s No Good” in questo tour non è stata proprio mai eseguita).

Chiude il tutto la solita “Personal Jesus”, forse il loro brano più celebre in assoluto. Questa volta, contrariamente al tour precedente, Martin attacca subito il famoso riff portante, provocando il delirio dei fan e lanciando immediatamente la band nel pezzo, che viene eseguito in una versione molto tradizionale, molto ritmata e, mi è parso, anche piuttosto accelerata.

È quindi sul coro “Reach Out and Touch Faith”, ripetuto a lungo per farlo cantare il più possibile, che si sono chiusi i due concerti a cui ho assistito.

Volendo tirare bilanci finali, non posso far altro che ripetere le due cose che ho già detto in apertura. Passano gli anni ma i Depeche Mode sono ancora grandissimi dal vivo e il loro spettacolo è tra i migliori che possano essere visti oggi. Da questo punto di vista, non ci sono band giovani o emergenti che reggano il confronto.

La seconda cosa è che purtroppo, come molte band dal repertorio smisurato, una certa “furberia” e mancanza di fantasia nella compilazione della setlist è all’ordine del giorno. Non si cambia mai da una data all’altra, si cambia parecchio da tour a tour ma alla fine, i brani presi in considerazione sono più o meno sempre quelli, vale a dire i singoli e in generale quelli che il pubblico conosce di più. Quindi, se da una parte un loro concerto è senza dubbio un’esperienza memorabile, musicalmente ed emotivamente di livello altissimo, dall’altra rischia di risultare un po’ scontata e prevedibile per chi li avesse già visti tante volte e si aspettasse quelle chicche da intenditori che purtroppo i tre non sembrano mai propensi a regalare.

Al di là di questo, comunque, possiamo senza dubbio salutare il ritorno di una delle band più importanti della storia del rock, che continua imperterrita a dimostrarsi tale.

Chi se li fosse persi, può cercare di rimediare coi concerti di quest’inverno. Nei palazzetti, tra l’altro, è pure molto meglio.