Ad apprendere il background dell’album “Goodnight Rhonda Lee” dalle vive parole di Nicole Atkins, sembra di essere perfettamente calati nell’atmosfera del racconto romantico di una discesa agli inferi e successiva riemersione stimolata dall’essere stati a un passo dal punto di non ritorno. C’è tutta la letteratura esistenziale di un io del vissuto e del vivente che raccoglie le macerie di un crollo per ricomporle nella volontà estrema di non far prevalere il nulla incombente.
Da qui prende forma la rinascita e il disco che fa seguito a “Slow Phaser” (2014). C’è un istinto estremo di difesa e uno schietto preservarsi fisico che precede concettualmente la riscoperta di un amor proprio. C’è la voce fuori campo di una persona vicina che incita la Atkins con rabbia e con amore a non perdersi, a non recitare il ruolo lusinghiero ma debilitante dell’artista maledetta e alternativa, per ritrovare la sua pura, vorace e impaziente origine soul. Nostalgica e impulsiva, devota a un passato fecondo ma indipendente e fiera della sua singolarità.
Quella Atkins che – vantando un repertorio che con il precedente lavoro si permetteva di osare forme canzone che partendo da Orbison, Hazelwood e Spector inglobavano Genesis e King Crimson insieme a disco e vintage – sembrava sul punto di esplodere in una resa dei conti più distruttiva ed esplicita di The Tower (epico e decadente tour de force posto in chiusura del secondo album “Mondo Amore”), compie con “Goodnight Rhonda Lee” un salvifico passo indietro al termine di una lotta con l’“altra lei” esorcizzata nel titolo del disco.
Si tratta di un’espediente ampiamente utilizzato quello dell’alter ego, che qui però fa scattare il recupero totale della radice soul della songwriter Atkins. Quella che si confronta a spron battuto con songwriter e interpreti di riferimento. Non tanto e non solo referenti immancabili come Orbison, Springfield e Joplin, ma combinazioni virtuose che assommano prescrizioni curative di Springsteen e Joel tagliati trasversalmente dalla poliedricità anche vocale di una Nyro. E – con la conferma in cabina di regia del provvidenziale Jim Sclavunos – alla maniera del tutto imprevedibile di un’artista eclettica in grado di rievocare splendori passati del pop e del rock senza tradire debiti irreversibili.
Così la spinta orchestrale dell’iniziale A Little Crazy trasuda una nostalgia retrò talmente vivida e passionale da trasportarne in tempo reale le istanze nel convulso presente di questi anni. Poi ci sono i r’n’b infuocati di soul e sezioni fiati che annoverano una cadenzata Darkness Falls So Quiet e una sanguigna Brokedown Luck che stende il tappeto rosso a una smagliante Listen Up che in non più di tre minuti ridisegna l’epopea pop-soul brulicante di gospel e splendori Motown. Cori, frustate armoniche e evocazioni black di freschezza e spessore tali che il mondo musicale cui fanno riferimento, si tinge di colori nuovi come in una seconda venuta da gustare in tempo reale. Persino nel relativo videoclip la nostra non si fa sfuggire l’opportunità di giocare d’autoironia sull’incidente occorsole in anni recenti, ritraendosi costretta a letto, in preda di ingombranti ingessature e trash tv.
Il talento scoppiettante e sanamente enciclopedico della cantautrice di Neptune City non si fa mancare, con la sorniona title track e l’avvincente If I Could, un’immersione nelle infatuazioni sudamericane del Joel più leggiadro e felpato, prima di accomodarsi nel più leggero disimpegno eighties di Sleepwalking. Tappeti di due, talora tre chitarre, sfide in punta di corda tra acustico ed elettrico, vocalismi ora suadenti ora al fulmicotone, echi di quell’impareggiabile mix tra pop-rock, atmosfere da cinema d’antan e Broadway si affacciano qua e là per esplodere negli episodi più accorati affidati al tenore riflessivo delle ballate. Come una pianistica Colors che trafigge e accarezza nella sua brevità che lascia sedotti e abbandonati o una I Love Living Here (Even When I Don’t) che immette nello struggente mood del disco un blues anthemico sostenuto da malinconici leit-motiv orchestra/fiati.
E dove la conclusione lascerebbe presagire una riedizione dell’elegia desolata alla The Tower, la Atkins confeziona il colpo di scena finale con l’uno-due di A Night of Serious Drinking e A Dream Without Pain. La prima prende spunto dalla citata esperienza di apparente “non ritorno” vissuta dalla protagonista con una catartica andatura jazz che riassume la dimensione della lotta interiore (dovete sapere che la Atkins ha letteralmente divorato l’omonimo libro dello scrittore surrealista Rene Daumal, continuandolo ad acquistare per i regali da farsi agli amici più intimi).
La seconda con un forte richiamo dylaniano su cui spaziano felicemente espedienti (una sospirosa ed emozionante steel guitar), reminiscenze e intuizioni melodiche di altissimo profilo per un finale che lascia aperte tutte le strade. E’ possibile la via di redenzione verso un sogno senza dolore o l’ombra delle Rhonda Lee che incombono su tutte le esistenze è destinata ad avere le meglio? Per ora conviene stare sul pezzo lasciando scorrere le note di quest’avvincente traiettoria che ha portato l’Atkins a dire sì alla sua e alle nostre esistenze in questo mondo.