Difficile, decisamente troppo difficile decidere da dove partire per raccontare il concerto di ieri sera. Posto che poi occorra davvero raccontarlo. Ma in ogni caso ho l’impressione, iniziando a scrivere queste righe, che qualunque cosa io scegliessi di dire sarebbe solo vuota retorica. Da una parte, infatti, c’è l’idea dell’evento unico, esclusivo, irripetibile; l’evento (parola che negli ultimi anni è diventata orribile ma che mai come adesso risulta azzeccata) organizzato una sera soltanto, al di fuori di qualsiasi ripetizione seriale tipica dei tour; il tutto, particolare in più, allestito in un posto dalla capienza limitata per cui già solo essere riusciti ad entrare costituiva un’impresa per nulla banale; un concerto, altro dato non trascurabile, tenuto in uno dei posti più belli che si possano immaginare in Europa (e forse anche nel mondo) per vedere musica dal vivo. Da ultimo, se queste ragioni non bastassero, il fatto che gli artisti coinvolti erano Thom Yorke e Jonny Greenwood, cantante e chitarrista dei Radiohead. Che, bisogna dirlo subito, non sono solo una delle rock band più importanti di tutti i tempi (di sicuro degli ultimi vent’anni) ma anche dei performer di livello assoluto. 



Per tutti questi dati, dunque, sarebbe facile liquidare la serata dicendo che è stato fantastico e piantarla lì. Soprattutto in quest’epoca di maschere e apparenze, chi c’era posterà foto con commenti entusiasti, chi non c’era schiatterà d’invidia (nella migliore delle ipotesi) o inizierà ad insultare pesantemente chi non c’era (nella peggiore) e tutti gli altri si metteranno a lamentarsi perché per un paio di giorni su Facebook e affini si parlerà solo di quanto sono stati bravi Jonny Greenwood e Thom Yorke a Macerata. 



Devo dire che, non appena le ultime note di “Karma Police” sono svanite nell’aria e Thom ha salutato i 2800 presenti con un semplice “Buonanotte”, gli interrogativi su che cosa avrei davvero dovuto scrivere di quel che è successo, hanno cominciato a tormentarmi. 

Amo i Radiohead da tantissimi anni ormai, ne ho seguito le diverse vicissitudini, le evoluzioni artistiche, li ho visti dal vivo molte volte per cui ho fortemente voluto esserci a questo concerto. E ovviamente penso che sia stato bello, bellissimo. Non superiore ad ogni aspettativa, perché c’è sempre qualcosa che ti aspetti che poi non si verifica, è normale. Però, sicuramente, delle diverse centinaia di show che ho visto in più di venti anni, questo avrà sempre un posto speciale nella mia personale classifica. 



Ma ovviamente non si può pensare di cavarsela così. Ci deve essere qualcosa di più importante e serio da dire. Ed è qui che viene il difficile. Perché la bellezza non si può spiegare a parole. È retorico, lo so, però è vero. Così come è retorico ma allo stesso tempo vero limitarsi a dire che bisognava esserci stati per capire davvero. 

Ma andiamo con ordine. Che ci facevano Thom Yorke e Jonny Greenwood a Macerata? Premettendo che questa è una band che esula da qualunque cliché si possa ancora avere sui gruppi rock (sono medio borghesi laureati e dotati di una cultura vasta e poliedrica, ricordo ancora il celebre critico Alex Ross basito dopo avere discusso per un’ora di architettura col chitarrista Ed O Brien), i due sono da sempre legati all’Italia, alla sua storia e alla sua cultura. A partire dal 2000, cioè da quando sono divenuti abbastanza grandi da potere liberamente imporre le loro condizioni ai promoter, nel nostro paese li abbiamo raramente visti in luoghi canonici come club o palazzetti. Hanno sempre privilegiato posti di grande fascino e interesse, per le loro esibizioni: basti pensare all’Arena di Verona, al Lazzaretto di Bergamo, alla piazza castello di Ferrara e cose così. 

Ultimamente questo legame si è inspessito: Thom si è fidanzato con un’attrice siciliana (dovrebbe quindi esserci questo, dietro ai suoi buffissimi intercalare in italiano tra un pezzo e l’altro) mentre Jonny, che è notoriamente timidissimo e totalmente ripiegato sulla sua musica, ha comprato casa in un luogo isolato delle Marche, dove chi ha avuto modo di incontrarlo ha testimoniato di una persona umile e molto disponibile (un paio di anni fa, se non vado errato, si era pure esibito gratis in casa di alcuni vicini). Sua moglie fa parte di un’associazione, ArteProArte, che si occupa della salvaguardia e del recupero delle opere danneggiate dai recenti terremoti in Abruzzo e, appunto, nelle Marche. A giugno la band al completo era tornata in Italia dopo ben cinque anni di assenza e aveva suonato due concerti, a Monza e a Firenze. Il giorno precedente la prima serata erano stati a Macerata, dove si erano impegnati a fare qualcosa per raccogliere fondi per questa associazione. Un mese dopo, la notizia: il 20 di agosto Yorke e Greenwood si sarebbero esibiti allo Sferisterio e tutto il ricavato sarebbe andato a questo nobile scopo. 

Era un concerto da non perdere soprattutto perché i due non avevano mai suonato in questa veste dalle nostre parti. Quella dei concerti in duo è un’abitudine che hanno da tantissimo tempo, più o meno dai primi anni del gruppo, ma fino ad ora avevano optato soprattutto per gli Stati Uniti o per l’Inghilterra. Inoltre, lo Sferisterio di Macerata è davvero un posto pazzesco: tutto, dalla collocazione all’interno del centro storico, alla particolare architettura circolare, all’acustica perfetta e al cielo aperto sotto al quale i musicisti si esibiscono, contribuisce a creare un’atmosfera unica. 

Capienza limitata, dicevamo, e dunque biglietti spazzati via in pochi minuti, nonostante i prezzi non certo popolari (c’era tutta una fascia accessibile ma gran parte della platea è stata venduta a 200 e 300 euro). Per fortuna, Vivaticket ha gestito le cose in maniera impeccabile: costi di prevendita bassissimi e tagliandi rigorosamente nominali, con un severo controllo dei documenti d’identità all’ingresso; dimostrazione che, quando e se si vogliono fare le cose per bene, non ci sono poi tutti questi impedimenti che vengono ogni volta millantati. 

In apertura, i due inglesi hanno voluto che ci fosse della musica classica e così per circa 45 minuti il Cubis Quartet, un quartetto d’archi formato per l’occasione, ha intrattenuto i presenti eseguendo dapprima musiche di Sostakovic e Schubert, e andando poi ad accompagnare il bandoneonista Daniele Di Bonaventura che ha proposto una suite in tre movimenti da lui composta. 

È stato un momento molto suggestivo, rovinato solo dalla maleducazione e dalla cafoneria di tutti coloro (purtroppo non pochi) che hanno continuato ad alzarsi per recarsi al bar o al bagno, ovviamente senza neppure accorgersi di arrecare disagio. Non ho resistito e al termine mi sono recato da una maschera e le ho chiesto, provocatoriamente, se quando in questo luogo si suona l’opera, agli spettatori è consentito di fare i comodi loro. La risposta è stata eloquente: “Certo che no, ma questo è un pubblico differente”. Evidentemente c’è ancora molto da fare in termini di educazione musicale, anche quella degli addetti ai lavori.

 

E tocca finalmente a Thom e a Jonny prendere possesso del palco. Personalmente non sapevo cosa aspettarmi. Normalmente, quando suonano in queste situazioni, amano sbizzarrirsi molto e proporre episodi al di fuori del loro solito catalogo, suonando cover, oscure bside oppure approfittandone per provare pezzi nuovi. Diciamo subito che questa volta, purtroppo, non è stato così. Se c’è infatti una nota negativa che si può evidenziare di questo concerto, è che è stato troppo canonico, troppo legato a quanto i Radiohead portano in giro normalmente, anche se qualche chicca non è mancata, per fortuna. 

D’altronde, però, una cosa così va preparata e i nostri sono stati in tour fino a pochi giorni fa. Difficile quindi chiedere uno spettacolo nuovo di zecca. E forse, supposizione mia, devono pure aver pensato che per un’occasione del genere, sarebbe stato più utile dare a tutta questa gente qualcosa che conoscevano bene.

 

Non è stato un normale show acustico, con i musicisti che imbracciano le chitarre e strimpellano qualcosa, magari improvvisando o raccogliendo le richieste del pubblico. 

È stato, in tutto e per tutto, un concerto dove i due hanno riproposto l’anima dei Radiohead, vale a dire la compenetrazione tra analogico e digitale, al servizio di un songwriting debitore  sia al rock tradizionale, dai Pixies, agli Smiths, ai New Order, sia alle più sperimentali frontiere della classica contemporanea. È stato un concerto dei Radiohead, alla fine, ma dove tutti i brani sono stati riarrangiati tenendo conto che non sarebbe stata una band di cinque elementi a suonarli. 

E quindi, appunto, da questo punto di vista, l’aggettivo “acustico” risulta totalmente fuori luogo: sul palco ci sono un sacco di strumenti, dalle chitarre elettriche, al pianoforte, ai sintetizzatori, più tutta una serie di diavolerie elettroniche utili per arricchire e stravolgere i pezzi come hanno sempre fatto durante i loro normali concerti. 

Ma a ben guardare, due sono stati gli elementi caratteristici di questo show: il primo è stata la normale opera di “sottrazione”, per cui alcuni episodi sono stati presi e spogliati di tutti i loro orpelli, riducendoli alla mera struttura melodica e armonica per dimostrare, in un modo che non avrei mai creduto possibile, che funzionavano allo stesso modo, se non meglio, delle versioni originali. 

Prendete “Bloom”, secondo pezzo in scaletta: sta su “The King of Limbs”, il disco più ostico e sperimentale della band, quello dove le passioni di nicchia di Jonny Greenwood hanno avuto il ruolo più preponderante. In studio è un’orgia roboante di suoni elettronici e di martellamenti percussivi, con la voce di Thom che suona straniata e dissociata. Qui si trasforma in un pezzo piano e voce dove, a dispetto di un accompagnamento molto poco canonico, risalta in tutta la sua meravigliosa semplicità. 

Un giochetto simile avviene con “Everything In Its Right Place”. Era quella che 17 anni fa rivelò al mondo “Kid A” facendo esclamare ad un sacco di gente: “E questi che cosa stanno combinando? Non sono mica i Radiohead!”. Ecco, anche qui piano e voce, con Jonny che si limita a qualche feedback leggerissimo. Un’altra canzone. O meglio, un’altra declinazione dello stesso brano, dove viene messo in evidenza come, nonostante la sua struttura rispetti più i canoni della musica elettronica che quelli del rock classico, può funzionare anche in questa veste e risultare perfettamente efficace e suggestiva. 

O ancora, “Nude”, un brano molto vecchio (risale all’epoca di “Kid A”, forse anche un po’ prima) ma che era stato recuperato e inciso solo su “In Rainbows”, il disco più inspiegabilmente sottovalutato del loro catalogo. Qui è straordinario l’uso ritmico dell’acustica, che va di fatto, con pochissimi tratti, a rimpiazzare meravigliosamente la parte orchestrale. Il risultato è una versione che conserva lo stesso spirito dell’originale ma che allo stesso tempo riesce a rivelarne ancora di più lo spirito originario. 

Lo stesso sistema viene adottato su “All I Need”, dallo stesso disco, con Thom che in pratica fa reggere tutta la base ritmica del pezzo su due note di pianoforte e ancora su “How To Disappear Completely”, col sintetizzatore di Greenwood a fornire il ricamo ideale per la chitarra acustica di Yorke. 

E poi c’è la seconda soluzione. Che, semplicemente, è riprodurre i brani esattamente alla stessa maniera in cui vengono eseguiti dai Radiohead al completo, lasciando ovviamente perdere quelle componenti che i due non sono fisicamente in grado di portare sul palco (in questi casi viene però usata una base di batteria elettronica). Ecco, le canzoni che seguono questo criterio sono forse le meno interessanti, perché c’è meno di nuovo da scoprire, ma non per questo risultano trascurabili. 

Cito per esempio “I Might Be Wrong”, oppure “The Numbers”, dove risalta il bellissimo gioco di chitarre tra i due, oppure ancora “Give Up The Ghost”, con Thom che litiga con la Loop Station e decide di ripartire daccapo; ancora, due vecchi classici come “No Surprises” e “Street Spirit (Fade Out)” che non dicono nulla di più rispetto a tutte le volte che gliele ho viste eseguire, ma che vengono proposte in versioni intense e di rara bellezza. 

In tutto questo, ci sono le chicche, quei pezzi per cui ogni volta si dice: “Solo per questa valeva la pena esserci!”. Non ne sono mancate, bisogna essere sinceri, a dispetto delle riserve che avevo espresso ad inizio articolo.

Pronti via, e i nostri ci rifilano il bozzetto acustico di “Faust Arp”, che non si sentiva davvero da tanti anni. Poi la sorpresa di “Present Tense”, dall’ultimo “A Moon Shaped Pool” e quasi mai preso in considerazione nel relativo tour. Eseguito a due chitarre, feeling malinconico e interpretazione vocale da brividi. 

Una delle più clamorose è stata “Follow Me Around”, outtake che i Radiohead non hanno mai pubblicato ufficialmente e che Thom ha eseguito qualche volta assieme agli Atoms For Peace, il suo side project assieme a Flea dei Red Hot Chili Peppers. 

Ma non è stata da meno “A Wolf at The Door”, per chi scrive uno degli episodi più riusciti di “Hail to The Thief”, del 2003; anche questa in doppia chitarra, ritmicamente molto vivace, col cantato/parlato di Yorke sputato fuori con una violenza ammantata di sarcasmo. 

Dobbiamo continuare? Continuiamo. È arrivata anche una versione totalmente riletta di “Cymbal Rush”, un pezzo che era finito sul debutto solista di Thom, “The Eraser”, e che io mi ero totalmente dimenticato (infatti non l’avevo riconosciuta per niente!). 

Infine, davvero per la serie, “questa mai avrei pensato di sentirla dal vivo”, ecco “Like Spinning Plates”, piano e voce, esattamente come nell’Ep live “I Might Be Wrong”. Una di quelle cose che, quando uscì quel disco, più di dieci anni fa, ascoltai a ripetizione per giorni interi, dicendomi che sì, sarebbe stato bello sentirla in concerto, ma che una cosa così non l’avrebbero fatta mai. Ecco, invece è successo ed io ero presente. Per una volta evitiamo di dire parole inutili e a rifugiarsi in un banale: “Chi c’era, sa.”. 

Ma se dovessi dire, per concludere, qual è stato il mio momento preferito, quale vorrei trattenere per sempre nella memoria, per poterlo rivivere in qualunque momento allo stesso modo, con lo stesso stupore commosso della prima volta, allora direi “Exit Music (For a Film”). Brano non certo inusuale, vero, ma che in questa versione, con Thom da solo alla chitarra acustica per la prima parte e Jonny sopra di lui a riprodurre un leggero tappeto d’organo nella seconda, è stato davvero memorabile. Non aveva la tragica magniloquenza dell’originale, ma ha assunto una dimensione di fragile tristezza, di agrodolce malinconia, valorizzata ancora una volta da una prova vocale da togliere il fiato. 

E qui bisogna dire un’altra cosa: Thom Yorke è stato in forma strepitosa per tutta la sera. Chi volesse analizzare la sua voce dal punto di vista meramente tecnico, non ci troverebbe forse molto di interessante (almeno apparentemente). Non è un cantante vocalmente dotato, almeno per quelli che sono i normali parametri con cui misuriamo queste cose. Ma se cantare è anche comunicare emozioni, sensazioni, allora lui ha davvero pochi rivali. Ieri sera è stato perfetto, se la perfezione è di questo mondo. E con a fianco un Jonny Greenwood che è non solo un chitarrista straordinariamente dotato ma anche uno dei musicisti e degli arrangiatori più eclettici e geniali degli ultimi decenni, allora si può capire come la compenetrazione di questi due elementi, l’intensità emotiva dell’uno, la vivace fantasia dell’altro, abbiano reso questa serata davvero indimenticabile. 

Aggiungiamo che il publico, per fortuna, ha deciso nella stragrande maggioranza di limitare le corse al bar e ha disturbato il meno possibile con foto e video vari. Aggiungiamo che Thom e Jonny sono apparsi rilassati e disponibili come non mai, nonostante siano effettivamente due pazzoidi persi ognuno nel loro mondo (ma se non fossero così, i Radiohead non sarebbero mai nati). Aggiungiamo che le previsioni davano pioggia ma che il cielo è rimasto stellato e la temperatura fresca al punto giusto. 

È stato un concerto indimenticabile. Lo dico senza retorica, con tutta l’obiettività di cui sono capace. A questo punto, per rendere giustizia a tutti, a chi c’era e soprattutto a chi non c’era, bisognerebbe far uscire un dvd. Questa bellezza deve essere per tutti, non solo per tremila fortunati.