Nel suo sito internet Omar Pedrini riassume la vita artistica in cifre: 19 album, 188 canzoni pubblicate, 1450+ concerti e 3 vite… Eh già, lo Zio Rock è un sopravvissuto, un miracolato che ancora una volta è riuscito a battere (ma non a sconfiggere) il suo male. Un uomo dal cuore grande, nel vero senso della parola, “costretto” a vivere il presente perché impossibilitato a fare progetti per il futuro. 



Un rocker dal pedigree impeccabile che ha dovuto fare i conti con gli eccessi e con i misteri della vita. Un artista per cui le liriche contano di più del bel canto e della melodia accattivante.

Nelle mie personalissime scelte musicali Pedrini ha acquisito un notevole credito anche solo per quanto ha fatto con i suoi Timoria nel periodo 1993-1995 (Viaggio Senza Vento e Speed Ball) tanto da apprezzare e salvare tutto quello che ha creato in epoca più recente continuando comunque a sorprendere e a rinnovarsi. Era già accaduto con il precedente album “Che ci vado a fare a Londra?” grazie alle bellissime canzoni Gaia e la balena, Veronica e Pianeta blu. Adesso con l’ultimo album “Come se non ci fosse un domani”, molto apprezzato dal pubblico e dalla critica, è stato ancora una volta in grado di stupire. Ricco di brani intensi come “Freak Antoni”, un omaggio al leader degli Skiantos e un viaggio nel passato ai tempi dei Timoria, e “Il Cielo sopra Milano”, un atto d’amore nei confronti della città che lo ha adottato, l’album è anche impreziosito da nomi e collaborazioni importanti.  In “Angelo Ribelle” Ian Anderson dei Jethro Tull ha contribuito con un assolo di flauto; “Un gioco Semplice” è una interpretazione di una b-side semi sconosciuta di Noel Gallagher “Simple game of a genious”; In “Desperation Horse” ha musicato un testo inedito del poeta Lawrence Ferlinghetti.

 In attesa di leggere “Cane Sciolto” la biografia di Omar che verrà presentata il 16 settembre al Monza Book Fest, ho avuto l’occasione di fare con lui una lunga e gradevole chiacchierata. L’intervista in realtà ha iniziato a prendere forma un giorno di primavera a Monza quando ci siamo incontrati casualmente mentre passeggiava nel Parco con una chitarra in mano…

 

A Monza, quello, non era un giorno qualsiasi. Era esattamente il 25 marzo 2017, giorno della visita di Papa Francesco. Ti eri appena esibito davanti a quasi un milione di persone! Più di Woodstock e ad un orario che poteva essere quello di Woodstock. Com’è nato quell’invito e quali sono state le emozioni di quella giornata?

Qualche mese prima del 25 marzo ho partecipato alla prima serata dei Dialoghi di Vita Buona organizzati dalla Diocesi di Milano e moderati da Ferruccio De Bortoli. Si parlava di Scienza e Fede, Scienza e Dio. Questi sono argomenti che, sin dai tempi del liceo classico e degli esami di filosofia che ho sostenuto, mi interessano molto. Sono stato invitato come artista, ma soprattutto come sopravvissuto, visto che ho subito e superato tre interventi cardiaci. Sono di fatto un “miracolato” perché aimè pochi hanno subito tanti interventi al cuore ma grazie alla scienza, al benestare e alla preghiera di Dio, sono ancora qua. Ecco credo che la fede e la scienza, in apparenza così distanti nel caso come il mio, in realtà interagiscano, siano complementari. In quell’occasione ho avuto il piacere di incontrare il Cardinale Scola, un uomo straordinario di grande semplicità e familiarità, con cui è nato un rapporto. Poche settimane dopo sono stato contattato dal suo segretario che mi ha fatto la proposta incredibile di suonare per Papa Francesco. Da peccatore quale sono, in altri momenti storici mi sarei sentito in imbarazzo, inadeguato alla circostanza, ma in questa fase della mia vita e, per un rivoluzionario come Papa Francesco, ho detto sì. Mi sono sentito come un Sant’Agostino Rock su un palco che era grande come quello di Vasco Rossi!

 

Come hai scelto le due canzoni che hai poi eseguito? Sei dovuto scendere a compromessi nella scelta?

Come immaginavo, l’organizzazione ha voluto sapere prima le canzoni che avrei interpretato. La canzone che volevo fare e che non avrei accettato che mi venisse tolta era Sole Spento che ho scritto diversi anni fa per i Timoria dalla lettera di un carcerato. Vado spesso nelle carceri a suonare perché è un mondo a me molto vicino (qualche fermo lo ho avuto pure io nella mia vita) e poi so che Papa Francesco è molto sensibile al tema delle condizioni dei carcerati in Italia. La cosa meravigliosa è che proprio mentre ero lì a provare quella canzone, il Santo Padre era a San Vittore. Per me è stata un’emozione grandissima spiegare il significato ed i motivi della scelta di quella canzone davanti a tutti. Per me è stato come un segnale di Dio. Ecco, non tutti ovviamente conoscevano la canzone ma molti comunque l’hanno cantata… almeno cinquantamila su un milione dai! Mi ha fatto un piacere immenso.

 

Il 27 settembre 1997 Bob Dylan al Congresso Eucaristico di Bologna davanti a Giovanni Paolo II ha eseguito Knockin’ on Heaven’s door, A Hard Rain’s going to fall e Forever Young. Il motivo della tua seconda canzone?

 Mi hanno spiegato che tra il pubblico ci sarebbe stata una grossa percentuale di stranieri, tra immigrati che vivono a Milano e pellegrini da tutta Europa. Allora ho pensato con umiltà che Knockin’ on Heaven’s door, oltre ad essere la canzone che Dylan aveva già fatto davanti ad un Pontefice, è una canzone che parla di Paradiso e che anche i bambini conoscono. Credo che sia stata apprezzata anche da chi non sapeva chi fosse Omar Pedrini. In quell’occasione mi è piaciuto farmi strumento di una parola di pace.

 

Quella giornata deve esserti rimasta impressa, ho notato che nelle date successive ti sei portato in giro il foulard della giornata del Papa legato all’asta del microfono…

 Sono molto felice. Anche se ho avuto una vita che non si discosta tanto dai canoni delle biografie rock, in me c’è sempre stata una lotta tra Fede e Scienza, R&R e Spiritualità. In passato ho fatto dei concerti per il Dalai Lama il quale ci ha ricordato e invitato a rimanere cristiani, di andare a fondo nella nostra fede. Così come per me è stato bello sentire Papa Francesco accogliere gli esponenti delle altre religioni. Questo Papa è davvero un rivoluzionario. Per un rocker certificato quale sono io da ormai 25 anni la cosa più trasgressiva che io possa fare adesso è appunto girare con il foulard di Papa Francesco e parlare di Fede e di ricerca della Fede ai giovani, proprio con la mia faccia, con il mio corpo pieno di cicatrici, di tatuaggi e il mio rock. Senza mezzi termini trovo che questa sia la forma più grande di trasgressione della mia vita e lo dice uno che ha un passato di droga, sesso e tutta la trafila che un rocker deve fare nella sua vita. Trovo che portare una briciola della parola del Papa, di un Papa che parla alla gente, sia una cosa meravigliosa. Un messaggio straordinario che finalmente posso condividere anche io, dal monito a Trump alla sua enciclica Laudato Sì sulla cura del bene comune e sulla Terra. Ora anche tutti gli ambientalisti non possono che portare questo Papa nel cuore. Trovo quindi giusto mandare dei segnali e ricordarlo quando parlo ai ragazzi sul palco. Un tempo per me la trasgressione era leggere le poesie durante i concerti, oggi è di parlare di quella giornata e di questo Papa.

 

Quanto ti vedo dal vivo mi colpisce l’affetto del pubblico nei tuoi confronti. Dopo i concerti si ferma sempre parecchia gente per complimentarsi con te, per un autografo o semplicemente per un saluto…sembra che tu abbia guadagnato tanti amici lungo la strada…

 L’espressione “amici lungo la strada” mi piace molto e mi ricorda una canzone di chiesa che da bambino cantavo negli anni ottanta durante la messa beat in cui suonavo la chitarra. La cosa particolare mia sin dai tempi dei Timoria è che non ho mai voluto che ci fossero barriere tra me e il pubblico. Il mio pubblico è la Big Family, così la chiamano in rete, e il mio fan club “Gli Amici di Omar” è fatto di amici, una grande famiglia di persone attente e curiose. Sono molto fiero di questo e cercherò sempre di essere all’altezza della loro stima. Quando la mia band va nel camerino al termine dell’esibizione e si beve la sospirata birra per me inizia la seconda parte del concerto e vado in mezzo alla gente finché c’è l’ultima persona ad aspettarmi. A me i fans non regalano peluche o cuoricini ma bottiglie di vino, formaggi, uova dei contadini, prodotti locali della terra. Dopo i concerti vogliono tutti il mio abbraccio. Come c’è la fila dell’autografo o della foto, da me c’è quella dell’abbraccio che abbatte ogni barriera… mi ha certamente ispirato nel mio modo di fare Augusto Daolio dei Nomadi che ho visto diverse volte dal vivo.

 

A proposito di concerti, quello dell’ARCI Tambourine di Seregno è diventato un appuntamento fisso: un anno fa hai eseguito un set elettronico e l’hai concluso a petto nudo… quest’anno hai fatto un unplugged e sei rimasto in maglietta. Faceva troppo freddo e ti hanno staccato la spina perché i vicini si sono lamentati?

 In acustico sudo di meno e mi viene meno voglia di spogliarmi! In elettrico invece mi sbatto come in una partita di rugby! Poi arriva sempre qualche fan feticista che mi chiede la maglietta e io me la cavo così con poco!


Dal vivo esegui sempre parecchie cover, in particolare ricordo quelle di Neil Young. Quale sponda dell’Oceano ti ha ispirato di più, il Brit Pop o il R&R Americano (o canadese)? 

Nasco “inglese”, amo i Beatles e tutto l’albero genealogico che ne deriva!  Paul Weller, gli Who (che restano il mio gruppo preferito) arrivando fino agli Oasis… Questo è il filone dal quale ho attinto di più. Combinato poi con il Prog italiano degli anni settanta, ovvero la PFM e gli Area su tutti, è nata la mia musica e quella dei Timoria. Dell’America mi piace la melodia aperta di Neil Young (nel mio periodo buio ho fatto addirittura una mini tournée portando in giro tutto Harvest) che adoro al pari dei miei miti inglesi. Non mi piace invece l’America vincente e grossolana. L’altra ondata americana che ho amato è il Grunge che era in contemporanea e che ha influenzato molto i Timoria. Non a caso i Pearl Jam, i Nirvana  e i Soundgarden hanno preso come esempio Neil Young “il Padrino del Grunge”. Queste band per quanto statunitensi sulla mappa, non si sono rifatte alla tradizione americana, sono molto diverse, piuttosto si sono ispirate al Punk. A me piace quell’America che è poco America. I Ramones e i Dead Kennedys mi piacciono molto ma si rifacevano al punk inglese. Per chiudere il cerchio gli Oasis e Noel Gallagher, le poche volte che hanno fatto cover dal vivo, hanno fatto i Beatles o Neil Young. Quindi mi potrei definire un inglese nato per sbaglio sul Lago di Garda che guarda all’America più dolorosa e perdente che era quella della scena di Seattle.

 

A maggio è uscito il tuo album “Come se non ci fosse un domani”. Come ti è venuto questo titolo ad effetto?

Apro gli occhi e sento che ho già paura. Tutti noi in questo momento abbiamo paura di qualcosa: del clima che sta impazzendo, del terrorismo, della crisi e di arrivare a fine mese, degli stranieri che arrivano nelle nostre terre. Su queste paure ho basato il mio disco. Non vorrei che ci facessimo determinare dalla paura.  C’è una vita, una sola, e abbiamo il diritto di viverla. Il disco finisce con un inno all’ottimismo con la canzone Sorridimi: quando tua figlia piccola ti salta nel letto tu dimentichi tutti i problemi e arrivi a pensare “Adesso il papà cambierà il mondo per te, tu sorridimi e io cambierò il mondo”. Non so esattamente come si possa fare ma esci dalla porta con una responsabilità. Noi crediamo di avere ereditato questo mondo dai nostri padri, ma è sbagliato, in realtà lo abbiamo in prestito dai nostri figli ed è questo che dobbiamo ricordarci ogni giorno.

 

“Come se non ci fosse un domani” è la tua risposta a “Hey Hey, My My” che suoni spesso? It’s better to burn out than fade away cantava Neil Young o piuttosto vuole essere un invito a vivere intensamente il presente?

Entrambe le cose. Quando ho scritto i testi ero in convalescenza. Ho avuto per due mesi tra il 40 e il 41 di febbre costanti e i medici avevano paura che non ce la facessi a superare l’ultima operazione. Ogni mattina quando riaprivo gli occhi dicevo “che bello c’è una giornata nuova anche oggi” perché quando li chiudevo la sera non sapevo se ci sarebbe stato un domani. Ho pensato, i filosofi, gli uomini saggi hanno sempre insegnato a tutti a vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo. “Vivi ogni giorno come fosse l’ultimo e impara come se non dovessi morire mai”. Questo slogan dovrebbe essere un monito per tutti! Vivete ogni istante! Quando saluti tua madre al telefono mostrale sempre un grande amore. Quando vedi un bel fiore goditelo perché un domani il clima non si sa se ci consentirà ancora di apprezzare la bellezza di un bel fiore giallo che cresce in un giardino. E così tutto. Ho giocato così sul doppio senso di una frase bella che potesse attirare l’attenzione un po’ di tutti, dal giovane che fa il brindisi a fine serata, al filosofo.

 

Intanto l’anno prossimo Viaggio Senza Vento compie 25 anni. La canzone dell’album Freak Antoni oltre ad essere un omaggio al leader degli Skiantos è un vero e proprio ritorno al passato ai tempi dei Timoria… ricordo che in breve tempo, a metà anni novanta, siete passati dal Circolino di Cusano Milanino, al Rolling Stone di Milano e poi ancora al Palalido. Come avete vissuto quel passaggio di notorietà improvvisa?

 Con grande gioia di tutti noi. I soloni della discografia fino a due anni prima ci dicevano che il Rock italiano non avrebbe mai venduto un disco. Nessuno ci credeva, eppure siamo stati dei pionieri, anche se l’aver raggiunto il Disco d’oro nel 1993 non pensavo potesse dare risonanza a tutto il movimento. Invece poi velocemente in pochi mesi ho capito che questa sarebbe stata la svolta che mi avrebbe fatto fare questo lavoro che amo per tutta la vita. Ringrazio tutti ma non me ne sono mai reso conto bene, ho solo seguito il mio istinto e la mia voglia di cantare cose che la gente capisse. In inglese tutti applaudivano ma potevi dire quello che volevi tanto in pochi capivano. In italiano invece hanno iniziato ad ascoltare i miei testi, cosa molto importante per me visto che attribuisco alle liriche un buon 50% del valore di una canzone. Da allora le case discografiche hanno iniziato ad investire anche nel rock italiano.

 

Hai siglato un contratto nuovo con la Warner Music, suoi social sono girate le foto mentre apponevi la firma sembravi un Top Player…da appassionato di calcio per chi fai il tifo?

Sono tifoso del Brescia, il tifo è uno solo, si cambia partito politico e moglie, ma mai la squadra. Però nasco juventino… mi chiamo Omar per via di Omar Sivori. A 12-13 anni ho visto e sono rimasto affascinato dalla curva del Brescia tanto da diventare anche Ultras. Tifare Brescia mi ha aiutato a capire che nella vita si perde, non si vince soltanto! Simpatizzo poi per le squadre delle regioni che amo ovvero Cagliari e Udinese  per via della Sardegna e del Friuli. La Sampdoria poi è forse la squadra che ho seguito di più negli ultimi anni perché il portiere Emiliano Viviano (ex Brescia) è il mio migliore amico e poi mio figlio Pablo è per metà di sangue genovese di parte doriana. Poi Marassi è lo stadio più inglese d’Italia e la maglia della Doria, insieme a quelle delle Rondinelle, è tra le più belle e originale del calcio italiano. E poi non dimentico il Milan che è gemellato con il mio Brescia.

 

E se ti proponessero X Factor?

 In linea di principio non sono favorevole ai Talent. Questi programmi hanno avuto il merito di riavvicinare i giovanissimi alla musica. Quello che non mi piace però è che innanzitutto sono delle palestre vocali dove si cerca il miglior ginnasta vocale e mai la canzone. Voci che ti lasciano d’incanto ma che sai già che l’anno dopo devono essere sostituite da qualcun altro che sarà ancora più un diamante grezzo. Mi piacerebbe un X-Factor di cantautori, di gente che scrive, di insegnanti che spieghino ai ragazzi come si scrive una canzone. Poi mi spiace che non vengano mai valorizzate le band o quando ci sono fanno esibire ed emergere solo il cantante. Con questi due paletti non posso prendere in considerazione l’idea di partecipare ad un Talent show, andrei contro me stesso. Però queste potrebbero diventare due condizioni anche se credo che il problema non si porrà mai perché i Talent sono in grande discesa, si stanno esaurendo, vedo segnali di stanca e non credo che possano durare ancora più di due anni. Di buono è che hanno fatto parlare di musica in un periodo in cui alla musica in TV non voleva dare spazio nessuno. Detto questo comunque mi sento rappresentato dal coach Manuel Agnelli, così come quando c’era Morgan mi piaceva molto, però non sono riusciti nemmeno loro a dare una svolta, anche perché rispondere ad un audience televisivo non deve essere semplice. Mentre quando mi chiamano a fare il giudice in concorsi locali vado volentieri dove c’è la possibilità di andare un po’ più a fondo.

 

Come stai adesso? Qual è il tuo stato di salute?

È difficile da dire. Nemmeno i grandi cardiologi che mi visitano sanno dirmelo. Ho un problema congenito, un cuore ipertrofico ovvero più grande del normale, molto poetico ma è anche così nella realtà e quindi ogni tanto può succedermi che ci siano dei problemi ma non c’è nulla di calcolabile. L’unica cosa che posso fare è che ogni sei mesi mi faccio ricoverare a Bologna per una tac. Il cuore è bastardo, non ti dà segnali prima, o hai un infarto o hai un collasso. Il cuore non lo senti…La mia vita adesso è normale ma navigo a vista e faccio progetti di sei mesi in sei mesi. Come se non ci fosse un domani.