C’è questo scenario di copertina colorato e al contempo desolato con la protagonista ritratta in una semplice posa che la mostra così com’è nella vita di tutti i giorni, precisamente come la potresti incontrare fuori da un locale prima di un concerto, perfino del suo. Guardandoti e sorridendo com’è capitato al sottoscritto qualche anno fa a margine di un’apparizione a sorpresa allo show della collega e amica Amelie. Dietro lei l’immaginario “Hotel Reborn” del titolo del disco che di immaginario ne schiude un altro ben più inquietante. Quello del mostro che aspetta esattamente dall’altra parte di quello che si sta cercando dentro quel luogo. Del resto basta scorgerne i particolari. L’hotel in questione appare aperto e illuminato solo nel suo attico mentre le restanti ali appaiono in rovina o abbandonate.  Il senso di tutto ciò, per quanto l’autrice ci prenda gusto a incentrare la sua poetica su fotogrammi estetici ai limiti dell’enigmatico, sembrerebbe quello di un’allusione alle strade senza uscita che popolano le esistenze di ciascuno nel mondo come lo conosciamo oggi.



Lei è la friulana Rebi Rivale (nome d’arte di Roberta Bosa), ennesimo prodotto offerto da una terra che in questi anni ha regalato molto e di significativo al cantautorato femminile. Come le altre di cui si è avuto occasione di parlare in questi anni, non si tratta esattamente di un’esordiente ma arriva con “Hotel Reborn” al terzo capitolo della discografia segnando un’importante passo di maturità nel suo percorso artistico. Quello che nei primi due dischi (eponimo del 2011 e “Emergenze” del 2013) vedeva una cantautrice dallo spessore drammatico e dall’anima battagliera confrontarsi con temi sensibili del quotidiano e riflessioni personali in una maniera schietta sul filo della provocazione, trova una interessante messa a fuoco nel nuovo lavoro. Ne escono storie, situazioni e personaggi al vaglio di uno sguardo più maturo in grado di dare un’impronta universale al pensiero e alla musicalità di un’artista viva e attenta a ciò che si muove e la circonda.



Hotel Reborn (intesa come canzone e titolo del disco) fa da comune denominatore a questa galleria di racconti, persone e vite. Al fuoco al fuoco inquadra una primo esempio di storia cara all’autrice. Il mondo delle donne con le sue libertà negate e verità sottaciute, lo sfruttamento degenerato in tragedia relegata alla fatalità dalla cronaca locale. E c’è innanzitutto l’urgenza del suo canto portato da una voce che si definisce su due registri.  Quello medio con la sua gravità quasi androgina, e quello alto che viene fuori in certi finali ad effetto. Come in Concerto per Marcel Cerdan, che nel rievocare la relazione segreta tra il pugile francese ed Edith Piaf riporta alla luce i tratti drammaturgici di un fatto storico con i suoi risvolti tra mito e realtà. E’ nel climax del brano che la Rivale accarezza le note con un’impennata che mescola sensualità e fragilità in una maniera del tutto unica.  Così come la si può ritrovare con accenti particolari anche in Ho pensieri e nella variazione della title track. E’ una sindrome da dipendenza quasi fatale quella che viene gridata sul finale (“il mio Hotel Reborn“) e che finisce per contagiare altri episodi del disco, quasi a sottolineare una sorta di ineluttabilità del destino. La citata Ho pensieri, l’accattivante botta e risposta ritmo/melodia de L’uomo nero e Delirio d’impotenza si muovono su queste coordinate. Quest’ultima, scritta a quattro mani con Ornella Tusini, riporta alla luce la collaborazione fondamentale per la crescita artistica della nostra sin dal disco d’esordio. Contributo che si rivela fondamentale anche nei passaggi che svelano l’anima più squisitamente musicale del disco, dove sale in cattedra in funzione di regia e suggerimento il talento strumentale di Marco Bianchi (Elsa Martin). La cruna dell’ago e Demoni trasfondono riferimenti letterali di peso in brani articolati che uniscono al barocco austero e ferreo della Rivale, la ricchezza danzante delle vibrazioni elettroacustiche delle chitarra di Bianchi. Un piccolo trionfo prog insomma.



La conclusiva ballata Humans (con il bel pianoforte di Consuelo Orsingher) sembra sancire un atto di sfiducia verso la capacità di riscatto dell’umanità di oggi, non lasciando vie di fuga verso facili soluzioni. Ma è indubbio che la denuncia, la perdita, il senso di impotenza, l’incomprensione di sé e del mondo scaturiscano dalla penna di un’artista che partendo dall’affezione per la persona, ne registra i fallimenti e le degenerazioni con un tono che rivela un amore intatto e tenace.