Forse mai come oggi si vive un tempo in cui la memoria dovrebbe avere un ruolo decisivo per districarsi nel groviglio dei cambiamenti epocali in cui siamo coinvolti. Se il fenomeno delle migrazioni infatti appare come un rebus per alcuni, come l’annuncio dell’apocalisse per altri o come un enorme fastidio che ci impaurisce per altri ancora, la memoria della storia di noi italiani può essere un mezzo decisivo per uscire dalla banalità dei cliché. Il problema è che quasi nessuno fa più “memoria”. E’ quello che propone invece Massimo Priviero nel suo ultimo, eccellente disco che già nel titolo si presenta come un’opera impegnativa e coraggiosa: “All’Italia”.



Non è un “Viva l’Italia” denso di amarezza e accusa in chiave de gregoriana. Tutt’altro: è una Italia commovente, fatta di storie personalissime di gente che, ieri e ancora oggi, ha sputato il proprio sangue per costruire un paese che ha perso, appunto, la memoria del sacrificio di tanti, o che ha contribuito a rendere grandi nazioni lontane di cui non immaginavano neanche l’esistenza. In questo modo allora si può capire il dramma delle decine di migliaia di persone che ogni anno arrivano in Europa, gettando lo scompiglio nel nostro quieto vivere. Come dice lo stesso Priviero, “qualunque sia stata e sia la motivazione, disperazione e sconforto o semplicemente desiderio di cambiamento, di un’alba migliore e di nuove opportunità, si compie un atto di coraggio e di forza”.



La storia è uguale, da sempre, così come lo sono gli atti di coraggio e forza. Cambiano i volti e le circostanze, ma non cambia la sostanza.

Ogni canzone di questo disco è una storia, che abbia radici personali e autobiografiche come Villa Regina o Basso Piave, o che narri di eventi letti o sentiti, resi con grande accuratezza di cronaca e grande cuore, come ad esempio la splendida Friuli 76, che davvero ti sembra di essere uno di quelli che vissero quel devastante terremoto. L’iniziale Villa Regina, dedicata a quei veneti che in Argentina costruirono un esempio di convivenza e di benessere. Ognuno troverà la sua storia, perché dentro ci siamo tutti. Storie scritte benissimo, con una proprietà di linguaggio che ben pochi in Italia sanno mettere in una canzone, e con una capacità emotiva che trabocca da ogni verso.



Per chi scrive queste righe, la storia è quella drammatica e potente raccontata in Fiume, in cui si narra degli italiani costretti ad abbandonare case e terre dell’Istria con l’unica alternativa la morte. Mio padre e la sua famiglia erano fra questi. Priviero con grande coraggio avvicina un tabù purtroppo ancora dolente, quando nel ritornello urla con fare liberatorio “Non sono fascista non sono partigiano mettetevi in testa son solo italiano”. Grazie a nome di chi è morto e di chi ha perso tutto venendo pure infangato con gli insulti.

Altrove sono storie più personali, come la bella Mozambico (sull’incedere musicale di Indipendece Day di Springsteen, il grande punto di riferimento del nostro da sempre e anche in questo disco) che racconta di un amico andato a lavorare per gbambini e gente poverain terra d’Africa.

Il punto più alto si tocca però con Bataclan, che racconta di Valeria Solesin, la giovane italiana morta nel massacro del locale parigino. Raccontata in prima persona, come fosse l’ultima telefonata della ragazza alla madre, squarcia il velo del dolore di quella notte orribile, terminando con un inquietante presagio: “Stasera voglio star bene e stare in mezzo al bacan, vado in un bel locale, si chiama Bataclan”. Ma non è una sconfitta: è una testimonianza di amore alla vita.

C’è anche spazio per l’allegra spensieratezza di London, ricordando i giorni antichi da busker di Priviero per le strade della capitale inglese, un brano ritmato e incalzante quasi fossero i Pogues oppure per il fracasso folk di Rinascimento, che pesca questa volta in un brano del più recente repertorio di Springsteen, Death to my Hometown, anche se il riffone che sostiene tutto il pezzo potrebbe essere stato peescato da Atlantic City sempre di Springsteen. Sono citazioni, omaggi, rimandi che non infastidiscono, ma si inseriscono perfettamente in un linguaggio originale. Che nessuno tanto inventa nulla.

Due eccezioni in un disco fatto interamente di ballate semi acustiche: se Priviero di canzoni così ne ha sempre scritte, questa volta non sono solo episodi singoli, ma un intero disco, lasciando per un attimo la strada del rock fragoroso. Quel folk di matrice americana che lo ha segnato profondamente, da Dylan a Springsteen, ballate dolenti e allo stesso tempo orgogliose, dispiegate su melodie gentili e accattivanti, con la solita voce grintosa del cantante, accompagnato da una lunga lista di musicisti di alto livello. Citiamo i soli Alex Cambise, anche co produttore del disco, Riccardo Maccabruni, Fabrizio Carletto e Oscar Palma, ma ce ne sono molti altri impegnati in una sarabanda di strumenti, dal violino al flauto, dal sax alle uillean pipe.

Un disco contenuto in una confezione raffinata e prestigiosa, con testi e foto. D’altro canto un disco così bello merita anche una bella presentazione anche esteriore. Forse la prova più matura di Massimo Priviero, conferma di un talento raro, un disco che ci rende orgogliosi della nostra storia e che andrebbe studiato nelle scuole.