Sulla carta, quando venne annunciato, sembrava potesse essere uno dei dischi dell’anno, un evento. Una riunione di due artisti non basata su un passato musicale, che i due non hanno mai inciso insieme prima d’ora, ma su una bella storia d’amore vecchia di 50 anni. Era infatti all’incirca il 1967 quando lei, “Judy Blue Eyes”, Judy Collins, folksinger già affermata, alla pari con Joan Baez nell’universo folk degli anni 60, era fidanzata con l’astro nascente del rock Stephen Stills, quello dei Buffalo Springfield e poi parte imprenscindibile del terzetto Crosby Stills Nash e anche del quartetto Crosby Stills Nash & Young.



Una storia breve, ma molto intensa la loro, che al momento della rottura produsse uno dei capolavori della storia del rock, quella Suite: Judy Blue Eyes nel primo disco di CSN del 1969, dedicata a lei, che fece sognare generazioni di ascoltatori. Lei avrebbe proceduto nei decenni con la sua continua scoperta di nuovi talenti della canzone d’autore (da Joni Mitchell a Leonard Cohen) di cui incise brani volati in testa alle classifiche dando loro la notorietà che ancora non avevano.



50 anni dopo i due decidono di fare il loro primo disco insieme: 78 anni lei, 72 lui.

Purtroppo nessuna delle promesse evocate viene mantenuta.

Stephen Stills è dalla fine degli anni 70 che non scrive più una canzone degna del suo nome, e l’età e gli abusi alcolici del passato gli hanno fatto perdere ogni sfumatura della sua bellissima voce, rendendola una noia senza emozione. In più, continua a ripetere se stesso in modo imbarazzante.

Il disco si apre con una scommessa difficilissima, persa su ogni fronte. Handle with Care, lo straordinario pezzo che iniziò la magnifica avventura dei Traveling Wilburys (Bob Dylan, George Harrison, Roy Orbison, Jeff Lynne), una ballata rock brillante ed emozionate, è una tediosa rilettura in cui i due si alternano alla voce senza il minimo sussulto, basata sui giri standard del rock blues di Stills, ma incolore e senza emozionii. Stills recupera due vecchi brani del suo passato, So Begins the Task e la conclusiva Questions addirittura dai tempi dei Buffalo Springfield, ma lo fa in modo svogliato, ricalcandone le forme originarie in modo pedissequo, e la voce poi non è più quella di allora, il peccato più grave di questo disco. Ma poi, un disco inteso come la celebrazione di una amicizia non solo sentimentale ma anche artistica risalente a un periodo storico ben preciso, che ci azzeccano pezzi di questo tipo? Sono completamente fuori contesto.



River of Gold è l’unico pezzo scritto a quattro mani. Cantato dalla Collins, permette solo di rimanere stupiti dalla brillantezza perfettamente conservata della sua voce, ma è un pezzo anonimo, tipica ballata folk come tante.

Stills dal canto suo propone un brano ovviamente intitolato Judy, ma non è la Suite: è un incolore brano soft rock in cui spiccano alcuni piacevoli assoli di chitarra e niente altro. 

Judy Collins decide poi di pagare pegno al suo amato Leonard Cohen, scomparso da poco, di cui fu la prima a incidere Suzanne portandola al successo. Il brano scelto è Everybody Knows ma sembra altro e si perde in leziosità ammorbanti, soprattutto per colpa della voce di Stills, nonostante anche qui qualche bella parte di chitarra elettrica. Con House, della Collins, possiamo rimanere estasiati ancora una volta dalla sua voce, è un buon pezzo, con intro pianistica, svolgimento folk, delicata ed elegante. 

Alcuni brani della stagione folk d’autore anch’essi di circa mezzo secolo fa portano al finale: Reason to Believe dello scomparso Tim Hardin resta fedele all’originale, che essendo una canzone meravigliosa non perde un’oncia della sua bellezza mentre la dylaniana Girl from North Country impreziosita dal classico fingerpicking di Stills, apre qualche squarcio di emozione e probabilmente era quella di questi due pezzi la direzione in cui andava impostato tutto il disco. Disco che si conclude con la già citata Questions, ma ha un ultimo e il solo momento di autentica bellezza, l’unico pezzo che vale la pena, ed è ancora grazie alla Collins, che regala una magica e bellissima resa del classico di un’altra artista scomparsa troppo presto, la cantante dei Fairport Convention, Sandy Denny, Who Knows Where the Times Gone, cantata meravigliosamente e che finalmente fa battere il cuore dell’ascoltatore.

Doveva essere uno dei dischi dell’anno, è una inutile pagina che dimostra che non tutti a 70 anni suonati possono ancora permettersi di incidere dischi. La Collins, quasi 80enne magari sì. Stills è un caro ricordo rimasto come memoria della più bella stagione della musica rock, ma oggi possiamo tranquillamente farne a meno.