Mancavano da un po’, ma ora i Procol Harum – complice l’uscita di un nuovo buon album, Novum – tornano in Italia. Lo fanno con tre serate a Milano (6 ottobre), Pordenone (7 ottobre) e Roma (9 ottobre) che si presentato come celebrazione di mezzo secolo di longevità artistica e di indiscutibile autorevolezza nell’ambito del progressive rock.



 

Cinquant’anni, mezzo secolo fa, era il 1967: proprio nell’anno della Summer of Love i Procol Harum esordivano in terra inglese con un disco destinato a fare storia, un album omonimo che conteneva (almeno nella sua versione internazionale) quel successo eterno che è A Whiter Shade of Pale. Gary Brooker, allora ventiduenne, era un cantante e tastierista di belle speranze; con lui c’erano Matthew Fisher all’Hammond e Robin Trower alle chitarre, un bel team di musicisti a cui dava un eccezionale apporto poetico Keith Reid, paroliere di onirica ispirazione. 



 

Gli inizi di quella band straordinaria erano legati a canzoni come Conquistador, Cerdes e Repent Walpurgis, capaci di quell’ibrido insolito tra rock e gusto sinfonico che negli anni diede vita nell’ambito britannico alle leggendarie esperienze artistiche di King Crimson, Yes, Genesis ed Emerson Lake and Palmer e Gentle Giant. Nella storia dei Procol Harum i “successi” sono di fatto racchiusi in una manciata di album, che si estendono produttivamente fino alla seconda metà degli anni ’70 con canzoni importanti come A Salty Dog, All of this and more e Homburg (destinata al successo italiano nella versione dei Camaleonti: L’ora dell’amore)



 

Due capolavori di opposta ambientazione rivelano le ispirazioni più marcate di quella band, Repent Walpurgis (inserita proprio nel disco d’esordio) e Whaling Story: la prima è uno dei più famosi brani strumentali del rock, una sorta di crescendo inquietante che parte dal Preludio nr.1 in Do Maggiore di Johan Sebastian Bach per arrivare ad un oscuro sabba di perdizione alla maniera di Modest Mussorgsky; la seconda è una potente tragedia di balenieri, una canzone-film che narra di uomini sconquassati dalle forze di un uragano atlantico che si rovescia sugli ascoltatori con la forza poderosa di una sferzata di rock elettrico.

 

Pescando senza troppi nascondimenti da Haendel e da Johan Strauss, andando anche a pubblicare nel 1971 uno dei primi album registrati live con un orchestra, lo stupendo Live with the Edmonton Symphony Orchestra (ma in questo anticipati nel 1969 dai Deep Purple di Concerto for group and orchestra, antesignano di molti altri improbabili mix tra rock e orchestre classiche), i Procol Harum sono stati indubbiamente una formazione di alta qualità pur nella capacità di dare sempre un occhio alla pop-music. Forse meno “colta” di altre star del rock sinfonico, anche per la loro impalpabile “colpa” di aver centrato da subito il successo di alta classifica visto che A Whiter Shade of Pale ha venduto oltre quindici milioni di copie dalla sua uscita (e come spesso accade chi ha successo viene scartato dalla critica d’élite), la band di Brooker non ha proseguito negli anni con una capacità creativa consona all’altissimo livello del suo primo decennio restando sostanzialmente inattiva da metà degli anni ’70 ai primi anni ’90. Sicuramente senza Procol Harum non ci sarebbe il progressive rock d’alta classifica, non ci sarebbe quel versante “leggero”, ma di forte impronta autoriale in cui la musica rock esplora territori che spesso incrociano psichedelia e classicismo.

 

Ora i Procol Harum tornano on stage, tanto per celebrare i loro primi cinquant’anni, pur senza Trower, Keith Reid e Fisher, che da anni si è dedicato all’informatica. Anniversari ed assenze e parte, quello che conta è che l’ultimo lavoro di Brooker e compagni, Novum, è un buonissimo album. Undici pezzi inediti, tanto per dire che la band britannica non è solo un bandello di archeologia musicale, con alcuni nuovi titoli decisamente efficaci: Image of the Beast, è una sorta di pop-blues elegante e sofisticato;

Soldier, Sunday morning, The only one, I Told You sono ballate perfettamente nel solco della produzione della band con Gary Brooker capace di cantare con una immutabile ed inconfondibile voce; Neighbour sembra un pezzo anni ’60, psichedelico al punto giusto, mentre Businessman è il pezzo più rock-blues, ruvido e trascinante (grazie alle chitarre di un ottimo veterano, George Whitehorn, il chitarrista preferito di Robert “Chappo” Chapman, leggendario vocalist e leder dei Family), mentre Somewhen è una ballata per pianoforte che risuona solenne come un inno anglicano. Su tutte le altre tracce del nuovo album si impone Can’t say that, una mini suite, vero prodotto del progressive rock più classico. Nella tournée 2017 in scena con Gary Brooker e Whitehorn ci saranno Geoff Dunn (batteria), Matt Pegg (basso), Josh Phillips (hammond). Sarà pure nostalgia, però potrebbe valerne la pena.