Neil Young ha più di qualcosa in comune con Bob Dylan. Oltre a essere i migliori autori di canzoni della loro generazione, tutti e due non sanno mai cosa mettere nei loro dischi. Neil Young fa di più: incide dischi interi e non li pubblica, oppure ne incide uno, ma lo fa uscire l’anno dopo che ne è uscito un’altro inciso in seguito (colpa anche delle case discografiche con cui il canadese non ha mai avuto un rapporto sereno). C’è anche un’altra differenza: dell’immenso patrimonio di brani non pubblicati, Young ne recupera sempre parecchi qua e là nel corso degli anni. Dylan, invece, se non fosse stato per la decisione della sua casa discografica (estorta, possiamo immaginare, con chissà quanta difficoltà al suo autore) certi capolavori non li avrebbe mai fatti uscire: brani come Farewell, Angelina; She’s Your Lover Now; Abandoned Love; Blind Willie McTell; Series of Dreams, Red River Shore, per dirne alcuni.



Non c’è da meravigliarsi se si conosce un po’ i due personaggi, artisti nel senso purissimo della parola, un senso oggi dimenticato da tutti, che registrano in modo spontaneo, la cui preoccupazione non è mai stata confezionare un prodotto commerciabile, ma solo catturare quanto hanno nel profondo della loro anima. Possono poi anche sbagliare nel decidere quale brano mettere nel disco, ma è solo la dimostrazione della loro purezza e onestà artistica.



Di “Hitchhiker”, disco registrato completamente da solo in una seduta la notte dell’11 agosto 1976 agli Indigo Studios di Malibu, che esce in questi giorni, dei dieci brani compresi non ne conoscevamo solo due, uno dei quali per altro forse il più bello, Give me Strenght (anche se eseguito alcuen volte dal vivo). Gli altri erano stati recuperati qua e là negli anni, in dischi come “Rust Never Sleeps”, “Comes a Time”, “Hawks and Doves”, “American Stars ‘n’ Bars” fino al recente “Le Noise” che proponeva una straordinaria versione della title-track. Però li conoscevamo in versione diversa, con accompagnamento, ad esempio l’arci nota Powderfinger divenuta con i Crazy Horse uno dei suoi più epici cavalli di battaglia, o Human Highway, quasi uno spensierato country rock. 



Qua invece c’è solo l’uomo e la sua chitarra, profondamente immerso in se stesso (se fosse uscito, sarebbe anche stato l’unico disco completamente acustico della sua carriera) e il pianoforte nella conclusiva Old Country Waltz. Un uomo che stava uscendo dalla devastante crisi raccontata nella splendida trilogia “Times Fade Away-On the Beach-Tonight’s the Night”, che oltre a essergli costata quasi la vita, lo aveva anche portato vicino al fallimento commerciale. Si era ripreso un anno prima con lo splendido “Zuma”, un disco di brillanti ballate rock contenenti alcuni dei suoi massimi capolavori e alcune delle sue più impressionanti parti di chitarra elettrica. 

Ma non era ancora fuori del tutto da quella crisi (“I’m deep inside myself, but I’ll get out somehow” cantava in Motion Pictures) e lo si sente in questo album.

D’altro canto l’uomo non seguiva lo stile di vita più salubre per chi vive problemi mentali e umani come la morte di amici e la separazione da mogli e compagne, come racconta lui stesso nella sua autobiografia a proposito di queste registrazioni: “Facevo delle pause solo per farmi una canna, una birra, o della coca(ina)”. Anche il motivo per cui decise di non pubblicarlo lo rende noto lui: “Ero piuttosto fuori di testa, si può capire dalle registrazioni”. Che invece sono eseguite splendidamente.

Il risultato è una sorta di “Tonight’s the Night” acustico, non dal punto di vista musicale, ma per la nuda forza, onestà e sofferenza che si ascolta da queste registrazioni. 

Per certi versi simile allo stesso impatto scarno, diretto, sanguinante di “Blood on the Tracks, di Bob Dylan” e a”Nebraska” di Springsteen, ascoltato oggi non ha solo un valore documentaristico, ma offre una spettacolare visione delle capacità compositive ed espressiva di questo artista. 

L’unico brano che era stato già pubblicato in questa forma è la straordinaria Campaigner, pubblicata nel 1977 all’interno della meravigliosa antologia tripla “Decade”. Brano scritto all’indomani della crisi del Watergate, resta attuale, basta cambiare il nome del presidente (“Se Richard Nixon ha mai avuto un’anima”… fate voi).

Powderfinger si snoda in modo delicato, e assume soprattutto i sapori di una ballata senza tempo, che narrando fatti risalenti ai tempi della Guerra civile, sembra sia stata composta e registrata allora. Così è Captain Kennedy con quel fingerpicking reminiscenze di antiche ballate folk inglesi, ad esempio quelle del suo amato Bert Jansch.

Hawaii, l’altro brano mai ascoltato prima, comincia con Young che ridacchia, ma il cantato è più introverso che mai, potrebbe essere stata inclusa tra i pezzi più sofferti e oscuri di “On the Beach”. Hitchhiker è una possente ballata visionaria delle sue, incalzante, sferragliante che anni dopo troverà una veste terrificante e inquietante che già si preannuncia in questa versione mentre Human Highway è un country dolente introdotto da una armonica soffiata a fatica. Ride My Llama che su “Rust Never Sleeps” sembrava uno scherzetto senza senso, nella sua scarna forma di blues autentico, svela invece la sua bellezza, con la performance vocale forse più autorevole di questa serie di canzoni.

Sembra di vederlo quest’uomo, da solo in una baracca da qualche parte sulle Montagne Rocciose, mentre una tempesta infuria fuori. Solo con i suoi tanti fantasmi, con l’ansia e la devastazione mentale che solo chi fatica a trovare il suo posto al mondo può avere. Poi si alza, appoggia la chitarra e si avvicina a un vecchio piano sgangherato. Mormora qualcosa e si mette a suonare note stonate, implora qualcuno che non c’è più, canta i sogni infranti di un mondo scomparso. Sta piangendo? Non lo sappiamo, ma noi forse sì ad ascoltare tanto dolore inciso una notte di agosto di quarant’anni fa. In fondo, è solo un “Old Country Waltz“, e così è la vita.