Sono passati quasi 26 anni dalla morte di Freddie Mercury, unanimemente considerato uno dei più grandi frontman della storia della musica, oltre che un innovatore dal punto di vista non solo della scrittura (la sintesi inedita tra generi molto diversi tra loro) ma anche della presenza scenica: quel 24 novembre del 1991 le complicazioni di una broncopolmonite legata all’AIDS che da qualche anno lo stava consumando hanno portato via, all’età di soli 45 anni, uno dei volti divenuti il simbolo dello showbiz musicale a cavallo tra gli Anni Settanta e Ottanta. E nella giornata di oggi l’ex leader dei Queen avrebbe compiuto 71 anni: come accade periodicamente peraltro per altri grandi artisti scomparsi troppo presto quali Kurt Cobain, anche in questo 5 settembre non sono mancate (nelle piazze di tutto il mondo come pure attraverso i social network) le tradizionali commemorazioni e una serie di eventi live per rievocare lo straordinario talento di Mercury. Anzi, proprio il ricordo delle sue straordinarie doti vocali e quel carisma innato che, una volta sul palco, grondava carisma da tutti i pori testimoniano del vuoto che il performer di origini africane ha lasciato, specialmente in rapporto all’attuale panorama discografico dove faticano maledettamente ad emergere degli epigoni capaci di raccoglierne l’eredità.



GLI ESORDI, LA SIMBIOSI CON I QUEEN E LA MALATTIA

Il lunghissimo viaggio che porterà Freddie Mercury dalla Tanzania ai più grandi palcoscenici di tutto il mondo comincia a Zanzibar, dove nasce nel 1946 con il nome di Farrokh Bulsara; è in India, dove visse i primi anni con la sua famiglia, che il giovane Farrokh scopre e inizia a coltivare il suo talento musicale, prendendo lezioni di piano e canto al college. Nel 1964, complice la rivoluzione di Zanzibar, la famiglia Bulsara si trasferisce in Inghilterra e qui Farrokh completa gli studi artistici per poi formare il primo complesso che lo porterà a conoscere gli Smile, ovvero il nucleo (Brian May e Roger Taylor) di quelli che, di lì a poco, con l’ingresso di John Deacon, nel 1970 diverranno ufficialmente i Queen, nome altisonante e che non nascondeva le ambizioni dei suoi giovani membri. A completare la sua prima, vera “trasformazione” di una carriera all’insegna dei cambianenti ecco arrivare anche il “moniker” di Freddie Mercury: da lì è un’ascesa vertiginosa, cominciata con l’omonimo album di debutto (1973) e A Night At The Opera (1975), il disco che proietta i Queen sulla scena internazionale grazie alla loro commistione di hard rock e sonorità glam. In seguito, ottenuta la consacrazione, arriveranno, tra i vari, A Day At The Races (1976), Jazz (1978), A Kind of Magic (1986) e Innuendo (1991), l’ultimo lp pubblicato prima della morte di Mercury: ammalato dal 1989, il frontman dei Queen sarebbe lentamente scomparso dalle scene fino a quel tragico comunicato del 22 novembre, a sole 24 ore dalla morte, in cui confermava per la prima volta la sua positività all’HIV. 



L’ECLETTISMO ARTISTICO E LE DOTI ISTRIONICHE

Le due principali “coordinate” lungo le quali si è mossa l’intensa ma (relativamente) breve parabola artistica di Freddie Mercury sono il suo eclettismo musicale e quella capacità che aveva anche David Bowie di saper giocare continuamente con le identità e i travestimenti scenici, non risolvendo mai le ambiguità circa i propri gusti sessuali (pur essendo gay dichiarato), ma anzi utilizzandole per creare un personaggio unico nel suo genere. Dal punto di vista dell’eredità che i Queen ci hanno lasciato, è interessante notare che, quando Mercury decise di unirsi a un sodalizio di musicisti che sarebbero entrati poi nella Hall of Fame del Rock, ebbe il merito di dare vita a un sincretismo musicale che, sotto l’etichetta di “glam rock”, accomunava generi tra di loro molto distanti quali il gospel, il funk, il metal e persino l’elettronica. A ciò si aggiunga che l’ex ragazzo timido che in India studiava pianoforte cominciò col tempo a diventare un vero animale da palcoscenico, trasformando ogni show dei Queen in una sorta di evento, oltre che una catarsi collettiva per chi vi assisteva: Mercury in meno di vent’anni è diventato un’icona che amava giocare sull’istrionismo e su continue improvvisazioni “on stage” divenute proverbiali. Anche per questo motivo, la sua morte ha segnato la fine di una lunga stagione fatta di eccessi tipicamente rock’n’roll e di una sperimentazione musicale mai più ripetutasi: e il fatto che a 26 anni di distanza non si intravedono ancora eredi di Mercury all’orizzonte la dice lunga sulla sua irripetibilità.

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