Negli anni ’90 non ci sono stati solo il Grunge e il Brit Pop. Il terzo, grande fenomeno musicale che ha contribuito a definire il panorama rock almeno nella prima metà di quel decennio, si chiama Shoegaze. O meglio, è stato chiamato così da qualche giornalista con la sindrome delle etichette e, come spesso vanno queste cose, in origine il termine aveva un significato ironico e vagamente dispregiativo. 



L’allusione era all’abitudine che molte di queste band avevano di tenere lo sguardo costantemente fisso a terra durante i loro concerti, da qui l’idea che passassero il tempo a guardarsi le scarpe (“Shoes Gazing”, appunto). Ma al di là di queste note folcloristiche, queste nuove band, per lo più originarie del mondo britannico, avevano dei tratti stilistici in comune: l’unione, all’epoca effettivamente piuttosto ardita, tra le melodie suadenti delle linee vocali e il fragore rumoristico della base musicale, ottenute con chitarre sature di distorsione e suonate a volumi altissimi. 



Fu una stagione breve, costellata da pochi successi commerciali (forse solo i Ride riuscirono a sfondare davvero, per un breve periodo): in seguito esplose il Brit Pop e non ci fu più posto per nient’altro, pazienza se gli Oasis provenivano da quella stessa Creation Records che tanta importanza ebbe nel plasmare quel tipo di sound. 

 

Oggi, sull’onda della nostalgia che sembra la cifra più importante di questo nostro tempo, in tanti hanno deciso di tornare. I primi sono stati i My Bloody Valentine, ancora qualche anno fa (il loro “Loveless” è senza dubbio il manifesto più importante di quel genere) ma fu una cosa estemporanea e di loro non si sa già più nulla. 



Tocca ora ai Ride e agli Slowdive, che dello Shoegaze sono sempre stati due interpreti per così dire agli antipodi: più duri e smaccatamente “British” i primi, più delicati e Pop Oriented i secondi. 

Due reunion di lusso, per loro, avvenute quasi contemporaneamente e seguendo lo stesso schema: prima un rapido tour in giro per i festival estivi, poi un disco vero e proprio, da promuovere con un ulteriore giro di concerti. 

 

Purtroppo i Ride hanno deciso di non passare dalle nostre parti (solo una data in Italia per loro, nella meravigliosa ma non proprio comodissima location di Castelbuono, in provincia di Palermo) ma con gli Slowdive ce l’abbiamo fatta: dopo la data a Bari della scorsa primavera, il gruppo di Reading ha trovato tempo di recarsi anche a Milano, all’interno del contesto di Unaltrofestival, organizzato come tutti gli anni al Circolo Magnolia di Segrate. 

Spendiamo solo due parole sull’edizione di quest’anno e sulla sua resa complessiva: se da una parte bisogna fare un plauso agli organizzatori per aver portato ancora una volta a costi bassissimi una band di primissimo livello dalle nostre parti (lo scorso anno c’erano stati Daughter ed Editors), bisogna anche precisare che i gruppi di contorno non sono apparsi particolarmente validi o comunque scelti sulla base di un criterio omogeneo. Non fraintendiamo: chi scrive è uno dei massimi sostenitori della varietà di scelta all’interno di un festival. Ma questo funziona soprattutto nell’arco di una giornata più lunga (o su più giornate) e quando nella stessa fascia oraria ci sono più artisti tra cui scegliere. Suonare dalle sette di sera in avanti, alternando gli act tra un palco e l’altro come è ormai tipico di questa rassegna, non aiuta molto e costringe gli spettatori a non avere nulla da fare quando sta suonando qualcuno che non è di loro gradimento (con conseguente aumento delle chiacchiere che disturbano chi invece vuole sentire). 

Questo a titolo di organizzazione. Per quanto riguarda la scelta dei nomi invece, la mia delusione per quest’anno è palese, ma qui si va evidentemente sui gusti personali, anche perché già avere gli Slowdive a pochi chilometri da casa basta e avanza. 

Cercando comunque di spendere qualche parola su chi suonava prima, posso dire che, essendomi perso i Belize in apertura (confesso di averlo fatto apposta, ebbene sì), sono rimasto piacevolmente impressionato dall’Alt Folk del romano Wrongonyou (al secolo Marco Zitelli) che ha incantato la platea con le sue canzoni acustiche in pieno stile Bon Iver, che pur non possedendo chissà quale originalità (ma in questo genere è impossibile, diciamocelo) sono di ottima fattura e hanno potuto godere di una interpretazione sentita (anche se l’uso dell’autotune, personalmente, me lo sarei risparmiato). 

Poca roba invece i Seafret, giovanissimo duo di Brighton autori di un album lo scorso anno e dediti ad un Folk Pop acustico decisamente di basse pretese. Canzoni anche accattivanti, qualche ritornello indovinato ma poca, davvero poca sostanza. Ricordano a tratti i primi Mumford And Sons e in questo senso potrebbero anche funzionare tra le giovani generazioni ma, per quanto mi riguarda, gli originali sono già abbastanza. 

Sul palco secondario si sono successivamente esibiti i Gazebo Penguins, originari di Correggio e ormai band di punta nella scena Emo-core italiana, con quattro dischi pubblicati e un’intensissima attività live. Il loro è un live ultra distorto, potentissimo e ad alta dose di drammaticità, come è nei canoni del genere. La loro proposta non mi ha mai interessato particolarmente e li ho guardati quindi con un po’ di distacco. Se la cavano comunque molto bene e chi apprezza quel che fanno non si sarà senz’altro trovato deluso. 

 

Gli Slowdive arrivano poco prima delle 23, quando il freddo che ha imperversato per tutta la giornata diventa, se possibile, più intenso. È stata piuttosto divertente la scena della cantante Rachel Goswell, una che di basse temperature dovrebbe intendersene, che parte scamiciata e decide di indossare una giacca alla terza canzone, look che manterrà poi per tutto lo show. 

Ma torniamo a cose serie. Attendevo questo concerto con grande curiosità e un po’ di trepidazione. Il ritorno discografico del gruppo inglese è stato incredibile: un disco senza titolo, con il solo nome della band in copertina, a significare emblematicamente un nuovo inizio, che riparte bene o male da dove la storia si era interrotta, riprendendo a grandi linee le stesse coordinate sonore ma con un’attenzione e una sensibilità alla melodia se possibile ancora maggiore. Non un semplice esercizio di stile, quindi, ma una vera e propria creazione artistica, un lascito per i posteri, un tentativo di riprendere il cammino. 

 

Ma dal vivo sarebbe stata la stessa cosa? Chi li aveva già visti recentemente mi aveva assicurato di sì e per fortuna aveva ragione. Il primo brano è “Slomo”, che apre il nuovo disco e subito dopo attaccano “Slowdive”, il primo brano del loro primo Ep, uscito nel 1990. In questi due pezzi, se vogliamo, c’è tutto il concerto. Le atmosfere sognanti e ultra romantiche del primo, le chitarre distorte del secondo, che non eclissano però il gioco di melodie di cui è ammantato il brano. 

I suoni, caso più unico che raro al Magnolia, sono nitidi, perfetti e questo è un bene perché la forza di questa band sta proprio nel tappeto sonico che riescono a creare grazie all’intreccio delle due chitarre (che spesso sono tre, visto che Rachel si divide tra questo strumento e la tastiera). Tanti armonici, brevi ed intensissimi soli, feedback distorti, riverberi, effetti vari a creare suggestive armonie. Neal Halstead e Christian Savill sono da questo punto di vista il cuore melodico del gruppo, e ascoltare come i loro strumenti si fondono a creare una cosa sola è veramente magnifico. Anche il basso di Nick Chaplin contribuisce non poco, creando una tessitura ritmica che va a rafforzare magnificamente il gioco delle due chitarre. Fondamentale anche Simon Scott, che non ha a che fare con parti di batteria troppo elaborate ma risulta funzionale al gioco del gruppo. Le voci di Rachel e Neal che si alternano le parti ma il più delle volte cantano insieme, completano un quadro di precisione esecutiva e potenza evocativa di livello altissimo. 

Quello degli Slowdive è infatti soprattutto un concerto di indicibile bellezza, dove la compostezza del gruppo, le melodie evocate dai loro strumenti e l’affascinante gioco di luci (quasi sempre molto basse, a tratti vivacemente colorate di giallo, verde e rosso), creano una bellezza che non chiede altro se non essere assaporata fino in fondo. Come tipico del genere, i loro pezzi si basano su pochi elementi e il fascino complessivo sta spesso nella ripetizione di un’idea a creare un vero e proprio mondo sonoro. Non è una tecnica che viene portata avanti all’eccesso, però: i singoli episodi durano poco e quando potrebbero lanciarsi di più (vedi “Avalyn”, che ha una seconda parte strumentale ipnotica e lunghissima), preferiscono condensare la formula. 

La scaletta spazia in lungo e in largo per tutto il loro repertorio, anche se la parte del leone la fa il secondo disco “Souvlaki”. Scelta particolare, perché l’esordio “Just For a Day” (da cui viene estratta la sola “Catch The Breeze”, peraltro in un’esecuzione commovente) è stato senza dubbio quello che ha raccolto di più all’epoca, in termini di vendite e visibilità. È vero però che il nuovo disco riprende quel filone maggiormente “pulito” e sognante che rappresentava invece la cifra principale del secondo lavoro, quindi ci può stare che abbiano scelto di seguire soprattutto quel binario. 

Da questo punto di vista, canzoni come “Machine Gun”, “When The Sun Hits” e soprattutto “Alison”, sono perfette canzoni Pop, nella sua declinazione più affascinante e romantica e come tali vengono suonate.

Il nuovo disco viene eseguito per metà, vale a dire quattro pezzi su otto: ne avremmo graditi di più, perché è un lavoro splendido (la conclusiva “Falling Ashes” avrebbe rappresentato un momento notevole ma la band non la sta suonando mai, a quanto vedo) ma i singoli “Star Roving” (quello più robusto e in qualche modo lontano dal loro stile, vicino alle cose di nuove band come DIIV o Beach Fossils) e “Sugar For The Pill” hanno detto grandi cose, oltre al meraviglioso gioco chitarristico di “No Longer Making Time”, diviso tra una strofa “contemplativa” ed un ritornello di moderata esplosione elettrica. 

Novità assoluta è stata, nel primo bis, la riproposizione di “Blue Skied an’ Clear” da “Pygmalion”, il loro terzo disco, realizzato da una band a pezzi e in profonda crisi, che di lì a poco infatti si sarebbe sciolta. Un lavoro a tratti frammentario e confuso, mai veramente entrato nel cuore dei fan della band, ma è stato bello riscoprirlo parzialmente questa sera, anche grazie ad una ben riuscita “Crazy For You”. 

Altro momento da incorniciare è stata la suggestiva rilettura della barrettiana “Golden Hair”, già presente in uno dei loro primi Ep. Un pezzo che ha tutta la carica drammatica e l’inquieta malinconia del Syd Barrett solista, abbellita da una lunga coda strumentale dal sapore Post Rock. 

Concerto eccezionale, durato un’ora e mezza e chiuso in bellezza da una “40 Days” densa ed eterea al tempo stesso. 

Ritrovare una band così in forma dopo vent’anni di inattività e così desiderosa di lanciarsi nel proprio presente, fa ben sperare per il futuro della musica. Forse non saremo costretti a sfogliare malinconici il libro dei ricordi o a spendere cifre folli per vecchi ottuagenari. In fin dei conti, c’è tutta una seconda generazione di band che attende ancora di essere raccontata.