Sto chiudendo il libro, sulle pagine e sul testo, e non mi importa in realtà, di quello che succederà, sto proprio andando, sto andando, sono andato: Gregg Allman ha preso a prestito alcuni versi di Going Going, Gone di Bob Dylan per accomiatarsi dalla vita, dai suoi amori e dalle sue canzoni. L’ha fatto materialmente il 27 maggio, sconfitto da un cancro al fegato dopo anni di ricadute e riprese di una salute malconcia e spesso riacciuffata per miracolo. 



Il 69enne padre del southern rock, nato nel 1947 a Nashville, ha salutato tutti artisticamente pubblicando in questi giorni il suo decimo album (escludendo quelli registrati con la Allman Brothers Band, che sono altri 24), Southern Blood, lavoro postumo prodotto da Don Was e registrato ai Fame Studio di Muscle Shoals in Alabama, studi leggendari dove hanno inciso i più grandi nomi della soul and blues music e dove Duane Allman, fratello e fondatore della celebre band, aveva iniziato a diventare famoso. Si tratta di un disco di dieci canzoni di cui solo la prima porta la firma di Allman (insieme a Scott Sharrard, chitarrista della sua band), mentre le altre nove sono cover più o meno celebri rilette e reinterpretate con quel suo feeling personale celebre ed indiscusso.



La strada è il mio unico e vero amico” canta Allman nella canzone d’apertura, My Only True Friend, con la sua voce inconfondibile, un impasto indimenticabile di tenerezza e di perdizione blues offerta ad una canzone che continua dicendo: “Spero tu possa essere posseduto dalla musica della mia anima, quando me ne sarò andato”. Nel pezzo successivo, la dolcissima e sconsolata Once I Was, tratto dal disco-capolavoro di Tim Buckley (Goodbye and Hello, anno 1967), Gregg spinge la sua voce e le sue tastiere verso la domanda più fragile per un uomo (oltre che per un artista): “A volte mi piacerebbe sapere, Se mi hai mai pensato, Se mi hai mai ricordato?”. Bastano questi due primi brani per definire il territorio artistico di questo album: soul-blues dettato da un’anima dagli infiniti chiaro-scuri, in compagnia di una band calda e pulita, priva di quelle asperità artistico-creative che erano state negli anni più caldi della Allman Brothers Band la maledizione del rapporto con Dickey Betts, chitarrista impetuoso e caratteraccio di rara impulsività autodistruttiva.



Ed allora avanti con gli altri pezzi dell’album: la già citata cover dylaniana (tratta da Planet Waves), che forse è il pezzo più bello e struggente del cd, l’aspro blues di Love the Life I Live di Willie Dixon (di cui la Allman Brothers aveva già recuperato in tempi d’oro la rovente The Same Thing) ed ancora Love Like Kerosene, un pezzo del chitarrista Sharrard già apparso nel recente doppio live Back to Macon, gran ritorno a casa in Georgia per colui che era ormai considerato il nume tutelare della southern music.

Mentre le canzoni si alternano, emerge una cifra: l’album è dominato da una nota di addio e di nostalgia. E’ un disco in cui Gregg trasmette palpabilmente la sensazione di essere arrivato al termine della sua autostrada, lui che da midnight rider l’aveva percorsa con ogni tempo e in ogni possibile situazione, con soci improbabili e con la compagnia di spettri e fantasmi. L’autostrada (non è un caso l’inserimento in questo disco di una versione diretta, ma assolutamente stunning di Willin’, sogno struggente di una vita da camionista firmata da un altro genio del southern rock, Lowell George) e l’inseparabile organo Hammond, gli amori e la nostalgia, l’autenticità e la felicità cercata e forse mai toccata fino in fondo nonostante sei matrimoni, alcuni figli, migliaia di concerti, milioni di fan: ecco cosa c’era nello zaino di questo musicista che ha segnato il rock per 50anni visto che il suo esordio discografico (con gli Hour Glass, band formata con il fratello Duane) è datato 1967. 

 

E visto che è un addio, il disco si conclude con Song for Adam, canzone dell’amico Jackson Browne (è nel primo album di quest’ultimo, datato 1972, esordio epocale che conteneva anche Jamaica Say you Will e Doctor My Eyes), a cui il cantautore californiano presta proprio voce e chitarra acustica a Gregg. La canzone è quasi il riassunto della vicenda artistica dei fratelli Allman. Dedicata da Jackson ad un amico scomparso, il brano diventa in questa interpretazione una sorta di accorata celebrazione della memoria di Duane Allman, “quando ci separammo, stavamo ancora sorridendo; non ho più sentito parlare di lui fino a quando ho sentito dire che un mio amico era morto”. Il protagonista poteva essere Duane, ora però (dopo la sua scomparsa) è Gregg, in una canzone che ha i sapori della California degli anni ’60, e che conclude un album di belle canzoni, di belle emozioni e di enormi commozioni.

 

Il Cd è un lavoro che svetta nella pur enorme produzione di Gregg Allman. Sicuramente più ricco del precedente Low Country Blues (2011), l’album conferma il sound soul-blues che Gregg Allman ha avuto in solitario dai tempi del suo primo live da solista (The Gregg Allman Tour, 1974), con il forte ricorso all’armentario di ottoni per generare quel certo sound con cui lui sintetizzava tutte le influenze del South, dal blues al gospel, dal country al jazz. Serpeggiante sotto le note e le melodie c’è l’antica anima solitaria di Gregg Allman, inquieta e delusa da mille amori (si pensi al suo capolavoro: Whipping Post), radicalmente incapace di sentirsi a casa e di “fermarsi” in quella quiete e in quella serenità che il musicista di Nashville ha sempre cercato, tanto da titolare uno dei suoi dischi più belli Searchin’ for Semplicity. Ma Southern Blood porta anche con sé la sensazione di una sorta di rappacificazione con la vita, percezione espressa in una delle canzoni simbolo di quest’ultimo disco, Out of the Left Field, capolavoro di Percy Sledge (era in Take Time to Know Her, album del 1968) scritta dalla coppia stellare dei Fame Studios, Dann Penn e Spooner Oldham. “Camminavo su una strada che non andava da nessuna parte… e poi da fuori dalla mia tristezza, dolcezza, sei venuta tu; improvvisamente, inaspettatamente, è arrivato un amore e un amico; un amore e un amico spuntati fuori dal nulla”. E l’inguaribile e irrefrenabile “sangue sudista” di Gregg, chissà, così potrebbe essersi trovato a casa, lui che anche recentemente aveva scritto dell’incapacità di “guarire” dai dolori della vita in due dolenti brani-manifesto come The High Cost of Low Living e Old Before My Time, compresi nell’ultimo album della ABB, Hittin the Note, anno 2003.

 

Icona del rock indipendente da tutto e da tutti, Gregg Allman lascia con questo album il suo segno finale sulla storia del rock, portando una voce e un tocco dell’Hammond che difficilmente potranno essere dimenticati o replicati. Con lui si conclude anche definitivamente la leggenda della Allman Brothers Band, regina del southern, autrice del più importante live della storia del rock (At Fillmore East), maestra (con i Grateful Dead) di ogni jamming band vivente, fucina di un blues e di una purezza musicale fatta di inventiva, creatività e di una buona dose di irrequietezza maledetta. Cala il sipario su Gregg Allman. Quel che resta è una personalità limpida, la sua grande musica e una scia infinita di canzoni importanti. Per tutti lui rimarrà sempre “the midnight rider”, colui che “loro non potranno mai fermare”.