La chiave tematica è già nel titolo ma viene ampliata da un sottotitolo nascosto nel retro del booklet del disco. “I want us to be okay“.  Il mondo è in preda alla follia, il desiderio è che tutti noi possiamo stare bene.  Detto così suona come una delle tante denunce dove il protagonista prende le distanze dalle malefatte del potere con un carico di malcelato buonismo e l’usuale vagonata di belle parole, ma non è così perché la narrazione schiude un saliscendi di immagini, riquadri e situazioni difficilmente riducibili a schematismi e velleità intellettuali.
Gli Everything Everything lanciano sì strali e missili concettuali alle follie del potere e dell’egoismo, ma alla loro stralunata e indomabile maniera di musicisti che hanno fatto e continuano a fare a pezzi dettami e diktat di culture e controculture, che miscelano decenni di musica rock e pop fregandosene di etichette e terreni privilegiati, per coltivare contestazioni e rivolte nei confronti del music business.
La loro personalissima rivolta – come efficacemente sottolineato anni fa dal critico Paul Lester – si attua nella stessa “fabbrica della melodia”, dal produttore al consumatore.  E quindi al diavolo distinzioni tra forme musicali dichiarate inconciliabili a cavallo dei ’70 e ’80, e dentro tutto o quasi per una forma canzone che riesca a coniugare rabbia punk/new wave con varietà e fantasia delle espressioni più ardite e ambiziose del rock, avvincendo e facendo riflettere al contempo.
Il risultato è nel nuovo disco “A Fever Dream” concept su sogni deliranti e autocoscienza, quarto lavoro della band dove, con una certa consapevolezza e confidenza, il quartetto folle di Manchester confeziona il suo lavoro più completo e spumeggiante, il più vicino alla freschezza insana e contagiosa dell’esordio “Man Alive” (2010).
La notizia è dunque che il mondo è sì malato per colpa delle trame del potere e di abusi e particolarismi personali ma che il nemico si nasconde nel vicinato, è in chi abita accanto a te e che il “vicino” potresti essere tu stesso.  La revisione moderna dell’homo homini lupus all’epoca dei social?  Può darsi, ma con gli Everything Everything, appunto, tutte le possibilità vanno in scena. 



 

Le danze vengono aperte da un epic condotto alla loro maniera.  In Night of The Long Knives vengono fatte convivere trame frenetiche e frastagliate, i classici fraseggi cibernetici del chitarrista Alex Robertshaw, i ritmi lucidi e spudorati del batterista Michael Spearman, i mosaici variegati del basso di Jeremy Pritchard, le trasvolate vocali al vetriolo di Jonathan Higgs con l’uso creativo degli ormai irrinunciabili travestimenti produttivi.  Ecco allora che il gusto dell’effettone sonoro approntato dal produttore James Ford (Foals) si trasforma in una sorta di riff analogico modernizzato che sembra emulare un’esplosione o una sgommata sinistra.  Nel seguito la piccola battaglia artista-produttore segna dei punti a favore di quest’ultimo.  Freddure sonore a tratti stridenti incluse in singoli o potenziali tali come Desire e Run The Numbers che esibiscono da par loro chorus semplicemente strepitosi, o in una Big Game che per altro verso cova atmosfere sornione a fuoco lento.  Gli stessi nostri giocano con il singolo apripista funkeggiante Can’t Do la carta del follow-up aritmetico e remunerativo di Distant Past.  Ma nel resto del disco l’ensemble guidato dalle geometrie elastiche di Pritchard e dalle pantomime lirico-vocali di Higgs, procede spedita portando alle estreme conseguenze il cuore del proprio ideale sonoro.  Un mondo in cui la stravaganza totale e creativa di capiscuola britannici quali Tony Banks e Peter Gabriel, si sposa all’indole fulminata e strafottente della migliore protest song senza escludere l’art rock psicologico-esistenzialista di Radiohead e adepti.
Si ascoltino le consecuzioni modalità rilassata/finemente ossessiva della title track, la voracità schizofrenica di Ivory Tower e soprattutto le scansioni irregolari e l’ariosità dimensionale di Good Shot, Good Soldier.  E ancora una Put Me Together che sciorina un bridge ricco di magnetiche successioni di accordi, prima di un’ipnotica, orientaleggiante, magica White Whale in cui il climax corale delle voci lascia in sospeso l’interrogativo lanciato dai due brani che precedono.  Se è vero che con le nostre idee giuste o sbagliate siamo tutti chiusi in una nostra torre d’avorio, come trovare una nuova profondità, una verità non mascherata, una balena bianca? Sarà forse un normale star bene, sarà l’amore? Sarà forse quel “Never tell me that we can’t go further” ripetuto instancabilmente sul finale? Gli Everything Everything ribadiscono con forza che sarebbe disumano e castrante precludersi un oltre e la possibilità di osare e ricominciare sempre e comunque, come dimostrato dalla stessa sfida rinnovata a livello musicale con questo album.



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